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da Grillo un paragone imperdonabile

Beppe Grillo sul suo blog ha attaccato l’informazione scrivendo: “La Radio Televisione Libera delle Mille Colline Italiana sta facendo a tempo pieno il suo sporco lavoro per garantire la continuità del Sistema alle prossime elezioni politiche. È necessario ‘tagliare la cima degli alberi alti’ per mantenere l’attuale classe politica al potere. Un’informazione simile a quella del Rwanda nel 1994. Qui siamo più civili. Non usiamo il machete. Gli avversari si diffamano, si isolano, si mandano in esilio come Ingroia. Solo come extrema ratio si eliminano, ma è una soluzione che presenta un prezzo molto alto da pagare all’opinione pubblica. La Radio delle Mille Colline rwandese aveva un solo speaker, quella italiana ne ha un numero quasi infinito, non sono di destra o di sinistra, sono servi ed eseguono gli ordini”…

e poi continua con questo paragone davvero assurdo!

Io che amo l’Africa, che ho scritto vari articoli sul genocidio in Ruanda non tollero che qualche pseudo-politico possa utilizzare quel terribile dramma a proprio vantaggio o per difesa o per criticare l’informazione italiana. I mass-media italiani, quelli governati dai poteri forti, hanno certamente tante pecche, lacune, ombre oscure, ma non si può fare un paragone con ciò che ha compiuto Radio delle Mille Colline in Ruanda.

Per conoscere un po’ meglio la drammatica storia del Ruanda ecco qualche mio articolo. Poi nella rete e nelle librerie si possono leggere tantissimi documenti attendibili:

Yolande Mukagasana. Per non dimenticare

A 15 anni dal genocidio del Ruanda il riscatto parte dalle donne

 Segnalo anche il libro:

ISTRUZIONI PER UN GENOCIDIO Rwanda: Cronache di un massacro evitabile di Daniele Scaglione

 

***Ruanda, un genocidio che si poteva evitare

Le origini delle rivalità etniche

Originariamente popolato dai pigmei Batwa, nomadi cacciatori e raccoglitori delle foreste, il Ruanda, grazie alle favorevoli caratteristiche climatiche e ambientali, ha conosciuto l’arrivo di altre etnie: prima gli Hutu, agricoltori di origine bantu, poi nel XIII secolo i Tutsi, pastori provenienti dall’Etiopia. Culturalmente più avanti rispetto alle altre etnie, i Tutsi iniziarono a imporsi sugli altri gruppi. Queste diversità etniche e i rapporti sociali, economici e politici che ne derivavano vennero in seguito alimentati dai colonizzatori tedeschi e belgi, nel corso del XX secolo. In particolare nel 1932 i belgi introdussero una “carta d’identità etnica”. Ai Tutsi furono accordati privilegi, oltre che posti di comando e ciò alimentò le ostilità nei loro confronti da parte degli Hutu. Nel 1959, si manifestarono gravi episodi di violenza che costrinsero migliaia di tutsi a rifugiarsi in Uganda. Nel ’62, il Ruanda – sotto la guida del presidente Gregoire Kaybanda, di etnia Hutu – divenne una repubblica indipendente. Nel corso degli anni successivi, gli scontri fra Tutsi e Hutu proseguirono, fino a quando nel 1973, Kaybanda venne deposto da un golpe che portò Juvenal Habyarimana (Hutu) alla presidenza del Paese. Molti Tutsi lasciarono il Ruanda e si rifugiarono nel vicino Uganda. Nel 1990, si manifestarono le prime avvisaglie di quello che si sarebbe trasformato in un vero e proprio genocidio. Quell’anno, scoppiò infatti la guerra civile, dopo che il Fronte Patriottico Ruandese, formazione politico-militare nata dalle comunità di Tutsi fuggite all’estero a partire dagli anni ’60, varcò la frontiera dell’Uganda e invase il Paese.

Il Ruanda, nonostante stesse vivendo una situazione economica e sociale grave, si trasformò nel terzo importatore di armi del continente africano. Tra il gennaio 1993 e il marzo 1994, vennero poi acquistati dalla Cina più di 500 mila machete. Infiammò ancor più la situazione il censimento voluto dal governo nel 1993: in quell’occasione, tutti i cittadini ruandesi furono obbligati a rendere nota l’appartenenza tribale. Nello stesso anno, si erano però anche avviate trattative per giungere ad una tregua. Il 4 agosto 1993, il presidente ruandese Juvenal Habyarimana aveva firmato un accordo di pace ad Arusha (Tanzania), con il Fronte Patriottico Ruandese a guida Tutsi per porre fine al conflitto civile in atto. Questi tentativi di pacificazione, però, furono osteggiati da alcuni gruppi hutu che dalle frequenze della Radio Mille Colline incitavano all’odio etnico. L’evento che fece precipitare la situazione si verificò il 6 aprile 1994, quando l’aereo su cui viaggiavano Juvenal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, presidenti rispettivamente del Ruanda e del Burundi – di ritorno da una conferenza per far avanzare il processo di pace – venne colpito ed abbattuto (ancora oggi non si sa da chi). Il giorno seguente iniziavano i 100 giorni più lunghi della storia ruandese: sino ai primi di luglio, squadroni della morte e truppe dell’esercito causarono il massacro di migliaia di Tutsi e di Hutu in qualche modo imparentatati o collegati ai primi: il machete fu l’arma più usata nel compiere il genocidio.

Silvia C. Turrin

Duecento luoghi per mantenere viva la memoria

Camminando per le vie delle città e dei villaggi del Ruanda si respira ancora un clima di angoscia per quanto è accaduto fra l’aprile e il luglio 1994. Nonostante le ferite non si siano ancora rimarginate, i ruandesi hanno deciso di conservare quei luoghi in cui si sono verificati terribili massacri. Lo scopo è quello di preservare la memoria del genocidio affinché le future generazioni, non solo ruandesi o africane, non cadano mai più in un simile baratro di orrore. Sono stati trasformati in monumenti commemorativi ben duecento luoghi. Tra essi figura la chiesa di Nyamata in cui circa 2500 persone, perlopiù donne e bambini, furono stipate al suo interno e uccise con il lancio, da parte delle milizie del vecchio regime, di bombe a mano. Altri luoghi “simbolo” sono diventati la scuola di Murami, dove furono uccise 27 mila persone; il centro di Bisesero, situato sulle colline di Kibuye, nella provincia occidentale del Ruanda, in cui morirono circa 30 mila civili e Nyanza. Qui duemila rifugiati Tutsi vennero barbaramente uccisi, dopo che i caschi blu furono ritirati su decisione dell’ONU. Proprio a Nyanza, si trova un cimitero in cui centinaia di croci di legno simboleggiano l’abbandono del Ruanda da parte della comunità internazionale.
Silvia C. Turrin

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