Il 7 aprile si commemorano le vittime del genocidio in Ruanda avvenuto nel 1994. Questa giornata intende far riflettere la comunità internazionale su quanto di terribile è accaduto 30 anni fa nel cuore dell’Africa. Al contempo, vuole essere un’occasione per contrastare ogni forma di odio e di discriminazione, purtroppo ancora ampiamente diffusi a livello globale.
La regola coloniale del “divide et impera”
Per comprendere il genocidio compiuto nel 1994 occorre andare indietro nella storia, e fermarsi all’epoca coloniale. Nel corso del XX secolo, i coloni europei sfruttarono a loro vantaggio le diversità etniche che intercorrevano tra gli Hutu, agricoltori di origine bantu, e i Tutsi, pastori provenienti dall’Etiopia.
Furono in particolare i coloni belgi ad acuire le differenze tra questi due popoli attraverso l’introduzione di una “carta d’identità etnica”. In pratica, l’elemento etnico venne acutizzato, al fine di evitare una possibile unità della popolazione ruandese contro il colonialismo europeo. La famosa e antica regola del “divide et impera” venne attuata dai belgi senza scrupoli. Ai Tutsi furono accordati privilegi, oltre che posti di comando e ciò alimentò le ostilità nei loro confronti da parte degli Hutu.
Anche dopo l’indipendenza del Ruanda, avvenuta nel 1962, le rivalità tra i due gruppi non cessarono e, anzi, si approfondirono. Ad infiammare ancor più la situazione fu lo scoppio della guerra civile nel 1990 e poi, nel 1993, la decisione del governo di effettuare un censimento che prevedeva l’obbligo di rendere nota l’appartenenza tribale. Ancora una volta, le differenze etniche vennero enfatizzate. Intanto, dalle frequenze della Radio Mille Colline si incitava all’odio etnico.
La miccia che alimentò il dramma avvenne il 6 aprile 1994, quando l’aereo su cui viaggiavano Juvenal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, presidenti rispettivamente del Ruanda e del Burundi – di ritorno da una conferenza per far avanzare il processo di pace – venne colpito ed abbattuto (ancora oggi non si sa da chi).
Il giorno seguente, il 7 aprile, iniziarono i 100 giorni più lunghi della storia ruandese: sino ai primi di luglio, squadroni della morte e truppe dell’esercito causarono il massacro di migliaia di Tutsi e di Hutu in qualche modo imparentatati o collegati ai primi. In quei terribili giorni, il Ruanda sprofondò nel baratro dell’odio e della violenza.
Ricordare per non commettere più gli stessi errori
In questa giornata internazionale in cui si commemorano le vittime di un genocidio, che si poteva evitare, occorre riflettere – come ci invita a fare l’Onu – sui pericoli degli estremismi, delle divisioni e dell’odio.
Proprio queste ombre sono calate in tanti luoghi del pianeta.
Se davvero vogliamo evolvere come umanità, se davvero vogliamo evitare catastrofi sociali ed ecologiche, dobbiamo nutrire in ogni nostro gesto uno spirito di comunità, di fratellanza/sorellanza, di aiuto e sostegno, bandendo dalle nostre anime odio e razzismo.
Occorre ricordare i drammi della storia proprio per imparare dalle loro terribili conseguenze, al fine di non commettere più quegli stessi errori.
Proprio per non dimenticare, il “Paese dalle mille colline” ha istituito 200 luoghi della memoria. Quattro di essi sono stati iscritti nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco: Nyamata, Murambi, Gisozi e Bisesero.
Tra i più importanti, quello sulla collina di Gisozi, a pochi chilometri dalla capitale Kigali, costruito nel 1999 e inaugurato nel 2004. Visitarlo significa toccare con mano tutta la brutalità di cui l’essere umano è capace di compiere. A Gisozi sono conservati i resti di 250mila persone.
Un altro luogo-simbolo è la chiesa di Nyamata (a circa 40 chilometri a sud di Kigali), in cui furono massacrate, in un solo giorno, 50mila persone lì rifugiatesi.