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Julius Nyerere, la Tanzania e la Cina di Mao

In questi giorni sembra che gli Europei/Occidentali stiano scoprendo i rapporti e gli investimenti economici tra la Cina e il continente africano. Una “scoperta” che desta sorprese, e forse “invidia”, per la saggia e sottile lungimiranza del governo di Pechino. Una “scoperta” dovuta al Focac (Forum on China-Africa Cooperation), che vede riuniti insieme i dirigenti cinesi, in primis il Presidente Xi Jinping li,  e i leader di 53 nazioni africane. 

Le relazioni commerciali tra Africa e Cina non sono certo nuove. Qui di seguito propongo un estratto dal mio libro “Nyerere, il maestro” (EMI) in cui spiego i motivi che avevano spinto Julius Nyerere, primo Preseidente della Tanzania libera e indipendente, ad allearsi economicamente con Mao Zedong.


Durante la metà degli anni Sessanta, poco dopo la creazione della Tanzania, Nyerere parte alla volta della Cina. Il 20 febbraio 1965 incontra Mao Zedong, colui che ha saputo guidare una grande massa di donne e uomini verso l’indipendenza. Entrambi hanno in comune diversi aspetti: sono leader che hanno dato speranza alla propria gente, lanciando un progetto – quello di una nazione libera dal giogo coloniale – che si è trasformato in realtà; entrambi credono che lo sviluppo del proprio paese debba passare da una “rivoluzione agraria”, poiché le risorse della terra possono sfamare donne, uomini e bambini, essendo le risorse nazionali più facili da gestire e da valorizzare.

Le similitudini però si fermano qui.

Mao è un capo militare, che non disdegna l’uso della violenza, come si è visto per il Tibet, occupato con la forza dall’esercito cinese già all’inizio degli anni Cinquanta. Un’occupazione che si è intensificata col tempo sino a farne una Provincia cinese (formalmente autonoma). Come si evince nel libro Barriera o incontro? I confini nel XX secolo, dall’invasione e dalla fuga del Dalai Lama in India la tragedia del Tibet non ha più avuto fine: seimila templi sono stati distrutti e più di un milione di tibetani sono stati uccisi.

Un giovanissimo Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, incontra un “cordiale” Mao Zedong. Era il 1954. Cinque anni dopo il leader spirituale del Tibet fu costretto a lasciare il suo Paese. E’ in esilio da allora. Foto Getty.

I militari cinesi hanno distrutto case, saccheggiato monasteri e occupato luoghi-simbolo del buddhismo come il Potala. Mao, oltre all’uso della violenza in Tibet, utilizza forme di autoritarismo anche per reprimere presunti “controrivoluzionari”: oscuro sarà il capitolo della rivoluzione culturale, avviata nel 1966, durante la quale, in realtà, la cultura viene annichilita per assurde manie di potere. Una rivoluzione nata per effetto di tensioni di classe e di contrasti generazionali che sono state strumentalizzate – come ha ricordato la nota sinologa Enrica Collotti Pischel in Cina oggi (Laterza, 1991) – da parte di Mao e ancor più dai vari gruppi della dirigenza, a causa di giochi di potere intricati. Durante la rivoluzione culturale milioni di giovani hanno dato vita al movimento delle Guardie rosse, per mobilitarsi contro le tendenze cosiddette revisioniste, rappresentate da intellettuali, burocrati, e da alcuni dirigenti del partito e dello Stato ritenuti non comunisti e nemici del partito, come Liu Shaoqi e Hu Yaobang.

Mao è poi un convinto ateo e la stessa Cina è fondata su questa idea. Nyerere è un devoto cattolico, crede nel dialogo e non nella violenza, rispetta ogni forma di differenza e ogni espressione ideologica e fede religiosa. Cosa lo spinge quindi a raggiungere Pechino per incontrare un leader politico molto diverso da lui soprattutto da un punto di vista religioso ed etico?

Semplicemente il pragmatismo dettato da analisi economiche.

La Cina di Mao dopo la Seconda guerra mondiale ha saputo muoversi in modo intelligente in Africa, proponendosi come partner commerciale “alternativo” rispetto ai due blocchi contrapposti. È proprio durante gli anni Cinquanta che i cinesi gettano le basi della loro “invasione” economica del continente, che si è sempre più rafforzata dalla fine del XX secolo. Il primo partner africano importante è proprio la Tanzania di Nyerere. Le relazioni bilaterali tra i due Paesi si rafforzano con la costruzione della ferrovia che collega il porto di Dar es Salaam e lo Zambia. Questa grande opera vede la diretta partecipazione di tecnici e operai cinesi (molti anche i lavoratori indiani coinvolti nel progetto). Il risultato è una ferrovia di 1860 chilometri, chiamata Freedom Railway: questo nome deriva dal fatto che l’opera è stata concepita per permettere allo Zambia di trasportare merci e persone senza dover passare per i porti del Sudafrica e della Rhodesia, due nazioni governate da regimi autoritari razzisti.

1965. Zhou Enlai, Primo ministro della Repubblica Popolare Cinese in visita in Tanzania. A fianco Il Presidente Julius Nyerere

Grazie alla Freedom Railway lo Zambia, privo di sbocchi marittimi, può mantenere i commerci con altri stati utilizzando il porto di Dar es Salaam. In questo modo viene sostenuto un blocco politico ed economico a danno non solo del Sudafrica e della Rhodesia, ma anche di quei paesi occidentali che continuano a intrattenere relazioni commerciali con i due regimi.

Per la Tanzania di Nyerere la ferrovia è una misura tangibile per contrastare le politiche di governi razzisti. Per la Cina di Mao la costruzione della ferrovia è un investimento economico, strategico e diplomatico: rappresenta un’iniziale longa manus verso un continente ricco di ingenti risorse minerarie.

Gli accordi di Nyerere con la Cina di Mao derivano dunque da analisi economico-politiche. Germania dell’Ovest, Stati Uniti e Gran Bretagna avevano in pratica riorientato i loro interessi verso altre nazioni dell’Africa meno ostili alla visione occidentale-capitalistica. La Cina si affacciava al mondo come giovane grande nazione, dotata di un’immensa forza-lavoro, di una vasta terra da coltivare, di un partito che agisce per attuare valori quali “unità, stabilità, prosperità”.

Adam Sapi Mkwawa, portavoce dell’Assemblea nazionale tanzaniana, afferma: «La visita di Nyerere in Cina è una questione importante per noi. La Tanzania e la Cina sono paesi fratelli. Nella lotta contro l’imperialismo, siamo dalla stessa parte. L’esperienza della Cina contribuirà a metterci in guardia contro nuove e vecchie forme di colonialismo e imperialismo, soprattutto del fronte americano».

Nyerere al suo arrivo a Pechino viene accolto da Mao Zedong, dall’allora Presidente della Repubblica popolare cinese Liu Shaoqi e dal Premier Zhou Enlai. Il progetto della costruzione di una ferrovia Tanzania-Zambia viene subito accolto con favore dai vertici cinesi. Nyerere visita Pechino, e poi Nanchino e Shanghai. Il viaggio culmina nella firma del Trattato di amicizia tra Cina e Tanzania della durata di dieci anni.

Il 28 ottobre 1970, durante l’inaugurazione della Freedom Railway tenutasi nell’importante snodo ferroviario di Kapiri Mposhi in Zambia, Nyerere spiega in modo chiaro la sua scelta di collaborare con la Cina.

Julius Nyerere (sulla destra) osserva sorridente l’abbraccio tra il Presidente dello Zambia, Kenneth Kaunda e il Vice-Premier cinese Sun Chien in occasione dell’inaugurazione della ferrovia Tanzania- Zambia. Foto Getty

Prima di tutto, ricorda, che sia la terra di Tanzania, sia lo Zambia sono state colonie europee fino ai primi anni Sessanta e che gli occidentali, inglesi e tedeschi in testa, nonostante le tante promesse non hanno mai realizzato infrastrutture per incentivare movimenti di merci e persone. I loro progetti erano in realtà ricatti: la costruzione di opere d’ingegno era subordinata all’accettazione di un’ideologia e di una determinata politica economica che non era altro che il capitalismo:

«Dal loro punto di vista l’aiuto è sempre uno strumento di dominazione. […] i cinesi non hanno colonie in Africa e nemmeno in altre parti del mondo: e la loro attuale leadership, finora, è fermamente e sinceramente anti-imperialista», dichiara Nyerere.

«Noi siamo estremamente grati verso la Repubblica Popolare Cinese per l’aiuto offerto al progetto della ferrovia; siamo grati per lo spirito con cui ci viene offerta l’assistenza e per il modo con cui questa assistenza viene elargita». (tratto da: Julius K. Nyerere, Freedom and development: Uhuru na Maendeleo. A selection from writings and speeches 1968-1973, Oxford University Press, 1973).

Nyerere qui coglie un elemento centrale che delinea il successo della cooperazione sino-africana. Egli spiega che i cinesi non hanno voluto nulla in cambio dell’aiuto per l’ambizioso progetto: a fronte del loro grosso investimento per la realizzazione dell’infrastruttura, hanno stabilito tempi di rimborso che vanno dal 1983 al 2012.

«Il popolo cinese non ha pianificato di ottenere profitti da questa ferrovia […] i cinesi non ci hanno chiesto di diventare comunisti perché ottenessimo il loro prestito! Loro sanno che non venderemo mai la nostra indipendenza, nemmeno per una ferrovia; e non hanno mai fatto allusione all’idea che noi dovessimo cambiare la nostra politica – interna o estera – in cambio del loro supporto economico». (tratto da: Julius K. Nyerere, Freedom and development: Uhuru na Maendeleo. A selection from writings and speeches 1968-1973, Oxford University Press, 1973).

È questo un punto fondamentale per capire il motivo per cui Nyerere abbia accettato la collaborazione economica della Cina e di un uomo come Mao, che non ha impedito la morte, la detenzione e l’umiliazione di centinaia di intellettuali e di insegnanti cinesi durante la tristemente famosa Rivoluzione Culturale. Questo atteggiamento cinese slegato alle logiche economiche tipiche di tanti Stati occidentali, per cui l’aiuto è condizionato all’accettazione di un’ideologia o di una determinata politica, risulta vincente e permette al governo di Pechino di essere un buon interlocutore per la Tanzania e per l’Africa.

Silvia C. Turrin

 

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