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Un’anima in blues

«Penso ci siano assonanze profonde tra determinati esseri umani e categorie musicali ben precise. Per esempio, chi ascolta blues, credo ami allo stesso tempo la musica barocca, il fado, generi molto costretti, dove la regola musicale è più limitante all’interno della tonalità; chi ama invece la musica romantica – Schubert, Schumann o Brahms – è più probabile che apprezzi anche il jazz e la musica brasiliana…»

È iniziato così, con questa premessa di Eugenio Finardi, il piacevole incontro con un artista che ha voluto e saputo brillantemente esplorare svariate sonorità, tra loro anche molto distanti: dal rock al gospel, passando per la canzone italiana d’autore. Una ricerca e una sperimentazione musicale lunga trent’anni. È infatti nel 1975 che viene pubblicato Non gettate alcun oggetto dai finestrini, primo album di Finardi targato Cramps, al quale sono poi seguiti Sugo, Diesel, Blitz, Roccando Rollando. Tutti lavori che, allontanandosi dal filone melodico dominante dell’epoca, hanno diffuso un sound alternativo, pieno di energia, ricco di rimandi a “musiche altre”. Una caratteristica, quella di scoprire, ascoltare e suonare vari generi, che non lo ha mai abbandonato, culminata in alcune produzioni specificamente distanti dalla tradizione musicale italiana. Nel 2001, viene pubblicato Fado, progetto nato dalla collaborazione con Marco Poeta, interamente ispirato alla musica portoghese, resa popolare al mondo intero dalla calda e struggente voce di Amalia Rodrigues.
Dopo l’omaggio alla saudade lusitana, Finardi ha realizzato un lavoro più intimista, Il silenzio e lo spirito, intriso di gospel, musica sacra e classica, che testimonia la sua dimensione spirituale, molto soggettiva, slegata al pensare comune e alle regole costituite.
Ma è il blues che esercita in lui un’attrazione istintiva e incontrollabile. Una seduzione musicale nata nella mitica estate del ’65 – trascorsa negli States, dalla nonna materna – nel corso della quale scopre il suo “lato musicale nero”. Muddy Waters e John Lee Hooker diventano per Finardi i migliori esponenti di un genere che lo ha incantato, sin dal primo ascolto. Finalmente, nel 2005 – quarant’anni dopo quell’estate che gli ha aperto le porte alle blue notes – è riuscito a sprigionare questa sua profonda passione, autoproducendo Anima*Blues.

Dalla musica ribelle al blues, un percorso musicale che non dovrebbe stupire chi conosce la tua storia di artista…
«Sì, in effetti quando è uscito questo album pensavo fosse accolto con molta più perplessità dai miei fan di lunga data, invece c’è stata una rincorsa… Nel mio sito c’è un guestbook e tutti quelli che lo frequentano hanno ricordato le occasioni in cui io avevo già, negli anni passati, cantato e suonato blues. Anzi, c’è chi è andato a rivedere vecchie registrazioni televisive, facendo venire anche a me la curiosità e così ho ripescato situazioni dove mi immergevo, come una catarsi, nelle profondità di questa musica nera. In realtà, Anima*blues non si può definire un incidente di percorso nella mia carriera, perché, in un certo senso, mi sono sempre sentito un musicista blues. È da quando avevo 13 anni che canto rock-blues e soul e verso i 22 è iniziata una sorta di deviazione. Negli anni ’70, da parte di molti musicisti in particolare della mia generazione c’è stata una presa di coscienza di tipo politico e ci siamo legati al movimento. Era una fase di grande euforia, dove tutto sembrava essere politica e da lì è nata la voglia non di tradurre in italiano il rock e la musica che amavamo, ma di trovare una via italiana al rock, con accordi in maggiore verso il minore. Ne è derivata una ricerca musicale che ha dato vita a un linguaggio preciso. Così sono nate canzoni come “Musica ribelle”, “Extraterrestre”, “Saluteremo il signor padrone”, che rappresentano il sound del primo Finardi e di tutta una situazione magmatica che girava intorno alla Cramps.»

In effetti, negli anni ’70, ci sono stati giovani musicisti impegnati politicamente che hanno cercato di trovare soluzioni alternative all’imperante corrente melodica. Tu eri tra loro. Anche adesso, con questo ritorno al blues sembra che tu voglia discostarti da un panorama musicale italiano fondamentalmente poco vivace, poco coraggioso nei testi, così come nelle composizioni.
«Di solito, questa distanza dalla musica pop italiana viene percepita come un fallimento…
Ma io ho dedicato trent’anni della mia vita a cercare di costruire uno stile che uscisse dalla banalità e che si staccasse da quel filone della classica melodia all’italiana, a mio parere povera di stimoli, nella quale non riesco a riconoscermi. Da sempre ho cercato di evitare quel modo di fare musica, traendo ispirazione dai mondi musicali che amo: ne esistono tanti, come esistono svariati modi di comporre. Ecco, io ho cercato di metter sempre la musica al centro di tutto e questo non mi ha portato molta fortuna rispetto a quasi tutti i miei colleghi. Anzi, i miei ultimi dischi in italiano sono stati quasi ignorati… Mi sembra che in Italia ci sia spazio soprattutto per un genere industriale e per una canzone d’autore “falsata”. Già negli anni ’70 era molto limitata, soprattutto sul piano musicale e, se vuoi, si riscattava nell’aspetto letterario, mentre adesso credo che negli ultimi cinque anni non abbia saputo rispondere a tutto quello che è successo in maniera dignitosa (Torri gemelle, guerre, tsunami…). La canzone italiana d’autore è un genere che essenzialmente non mi interessa più, che non mi dà stimoli. In questi trent’anni ho cercato di cambiare il sistema, di aprirlo e purtroppo devo dire che non ho raggiunto grandi risultati almeno commerciali. A un certo punto mi sono reso conto che la musica italiana mi stava un po’ stretta, non riuscivo a esprimermi al meglio e ciò che realizzavo veniva accolto quasi con indifferenza.
Anima*blues è stato a questo punto naturale realizzarlo: il blues e cantare in inglese sono per me fonte di puro piacere…»

Ma questo tuo accostarsi ad altri mondi musicali, come il blues, è dipeso dall’indifferenza che hai percepito attorno a te negli ultimi tuoi lavori prodotti in italiano?
«È dipeso da vari fattori, dalla voglia di non cadere in operazioni di marketing, ma di realizzare veri progetti artistici.
Il fatto è che c’era poca gente interessata a credere nelle mie composizioni in italiano, così mi sono sentito libero di suonare e cantare ciò che voglio.»

E questa libertà ti ha permesso di sprigionare la tua passione per il blues…
«Sicuramente. Devi sapere che Anima*blues è una sorta di Frankenstein, naturalmente nel senso buono: noi gli abbiamo dato il soffio della vita, ma è un progetto che sta crescendo da solo e sta ripercorrendo un po’ la storia della musica blues. I primi quattro pezzi scritti sono stati “Heart of the country”, “Holyland”, “Marta’s dream” e “Sweet surrender” e, se ci pensi, sembrano le più antiche, perché ritornano alle radici del blues. In seguito, abbiamo composto “Long way home”, “Pipe dream”, “Barnyard Mama”, che rispecchiano il sound rock-blues bianco degli anni ’70. Ci sono poi brani tex-mex, come “Estrellita”.
Adesso, stiamo scrivendo canzoni molto più tendenti al soul. Ogni volta che ci ritroviamo non riusciamo a fare altro che comporre e suonare.»

La creatività, l’ispirazione unite alla passione: la condizione migliore che possa sperimentare un musicista…
«Certo, la passione prima di tutto. Nell’industria della musica c’è chi studia come posizionare determinati album, li concepiscono a tavolino, ma pochi o nessuno si rende conto che per fare della musica, è prima necessario suonare un anno insieme. Invece, adesso sembra che prevalgano il prodotto, l’aspetto esteriore, dopo di che viene la musica.
Anima*blues è in controtendenza a tutto questo. È stato realizzato dopo mesi e mesi di concerti ed è suonato, non a strati, ma globalmente, una vera jam-session.»

Mi è parso di capire che l’input per Anima*blues sia nato dal film-documentario The soul of a man di Wim Wenders, che hai visto con tuo figlio…
«In realtà, Anima*blues è nato per una serie di coincidenze. Prima ho trovato il chitarrista, Massimo Martellotta, col quale ho lavorato anche nella registrazione di Cinquant’anni, album per me molto visionario, in cui ho provato alcune sonorità nuove, con il quartetto d’archi, l’orchestra. Nelle pause di lavorazione generalmente suono blues. Ho iniziato a suonarlo anche con Massimo e così ho scoperto quanto sia bravo: lui non sapeva nemmeno di essere un chitarrista di blues…»

Il blues – e in genere la musica nera – ha la forza di far affiorare sentimenti forse appannati, assopiti e di far rivivere l’intensità e le contraddizioni della vita?
«Il blues non è altro che una via per la trascendenza. Io credo che la musica sia una sorta di edificazione, un ponte che viene costruito sul vuoto. È un’architettura che si erige nel tempo e che edifica il sostegno della verità emotiva. Più la musica è limitata da regole, più è codificata – come nel blues, nel fado, nella musica barocca – più questo ponte è solido e forte per sostenere la fortissima libertà, le passioni e le sensazioni viscerali che nascono. Nella mia voce, nelle chitarre, nei musicisti di Anima*blues cercavo proprio questo afflato di liberazione del sentimento. Io non sono credente, sono un laico, ma credo che la spiritualità sia un profondo bisogno dell’uomo. Penso che la musica sia il modo più vero, più puro per immergersi in questa spiritualità e infatti è intensamente presente nelle varie liturgie per accedere agli assoluti del cosmo. Se ci pensi, la musica non è altro che matematica, una serie di numeri che se espressi in frequenze udibili permettono il puro godimento. E con il canto, con la parola abbiamo la possibilità di creare quell’unione fra il nostro assoluto emotivo, interiore e gli assoluti cosmici.
Da quando ho compiuto 50 anni, mi sto dedicando a questa trascendenza come cantautore e nei momenti live, attraverso proprio la musica blues, io sono in grado di trascendere: le sensazioni sono meravigliose.
Avvertivo la necessità di trovare altri tre musicisti che la pensassero esattamente così, che si perdessero e in Anima*blues c’è questo senso di perdimento, lo si sente sin dall’inizio: per esempio in “Mama left me” c’è proprio questo prezioso, sacro abbandono.»

Quindi in un certo senso questo tuo allontanamento dalla canzone italiana d’autore sta sprigionando qualcosa di assolutamente positivo…
«Sì, avevo solo bisogno di musicisti come Pippo Guarnera, Vince Vallicelli, Massimo Martellotta ed era fondamentale un certo pathos, una certa condizione…che liberasse queste energie interne a me, condivise anche dagli altri. Anima*blues sta crescendo, il disco che abbiamo realizzato è solo una parte di questa nostra “eccitazione creativa”.»

Ma io mi sono chiesta, perché proprio adesso, perché in questo periodo storico sono nate le condizioni per creare un album blues. È stata forse una scelta indiretta, magari inconscia, dettata dai tempi in cui viviamo, tempi di inquietudine, instabilità, paure: sentimenti che riescono a essere rappresentati meglio attraverso il blues, un genere che più di altre forme musicali permette di esprimere la rabbia, il disagio, ma anche la speranza?
«Certo, questo momento storico spinge e ispira a cantare, suonare blues…»

Mi sembra poi che in Anima*blues aleggi quello “spirito ribelle” e quell’atteggiamento di non indifferenza per quanto è accaduto e sta accadendo nel mondo. Lo si ritrova nella scelta del blues, così come nei testi. Penso per esempio alle lyric di “Holyland” (…There has to come the season for peace over this land […] Why does a man kill his brother…) o di “Pipe dream” (…Manipulation and distorsion of the truth will lead to hateBelief in superstition and in demagogues will seal our fate…).
«Sì, e non posso fare altrimenti…»

E il blues si sente anche nella scelta degli strumenti vintage…
«Assolutamente, ma non solo. Immergersi nel blues è stato quasi maniacale: dagli amplificatori ai microfoni vintage. Ho insistito poi nella scelta del banco NEVE 5116, che è stata un po’ una mia mania, un mio desiderio, perché ha la capacità di aprire in qualche modo l’orizzonte, dà l’idea di grandi e infiniti spazi.»

Tornando invece al concetto di libertà dell’artista, secondo te i musicisti di oggi sono più liberi rispetto a quando hai iniziato tu oppure le logiche di mercato, come dicevi, stanno un po’ minando la loro creatività?
«Noi artisti della Cramps non avevamo la minima idea di cosa fosse il marketing o quando fosse la stagione migliore per commercializzare un album. Oggi molti giovani musicisti sono attenti a questi dettagli, ma tutto ciò può rappresentare una sorta di gabbia. C’è il pericolo di bloccare, comprimere la vena creativa, perché si rischia di pensare troppo a cosa gli altri vogliono sentire. Ecco, con Anima*blues questo non accade, è totalmente il contrario: noi proponiamo musica che noi abbiamo voglia di suonare.
E c’è un’enorme differenza! Credo che troppi adesso partano già con l’idea di un percorso che include il marketing. Anima*blues è stato invece assolutamente spontaneo: è l’anima blues che ha determinato il suono…»

Quindi, visto il tuo più totale coinvolgimento vorrai proseguire cantando e suonando blues?
«Certo, se ci saranno le condizioni che me lo permetteranno. Questo è un album che ho io stesso prodotto, perché ci credevo e volevo effettivamente realizzarlo. Spero che porti a tanti, tanti concerti, perché la dimensione dal vivo è qualcosa di assolutamente travolgente. Abbiamo già un calendario fitto per questa estate.»

Ti sei avvicinato al rock, al fado, passando per la musica sacra, gospel, fino a giungere al blues. È come se tu stessi ricercando le radici della musica. Dobbiamo aspettarci da te incursioni in altri generi?
«Vorrei individuare un percorso che mi permetta di esprimere e sentire la musica come forma di trascendenza, magari partendo da alcuni modelli di meditazione, dai raga indiani o dalla musica sufi. Ho in mente anche altre idee legate alla musica barocca e alle composizioni di Gluck, in collaborazione con Uri Caine.
Ma adesso voglio dedicarmi completamente ad Anima*Blues, progetto in cui ripongo tutto il mio entusiasmo.»

Ed è evidente il suo trasporto verso il nuovo album che, ad eccezione di “Spoonful” (cover dell’omonimo brano di Willie Dixon), contiene undici tracce originali, tutte scritte da Finardi e dai talentosi musicisti che lo accompagnano.
Il mood tipico della musica nera pervade Anima*Blues, grazie agli arrangiamenti e agli strumenti vintage utilizzati per l’occasione. Ma è anche la voce di Finardi – calda, intensa, a tratti ruvida, a tratti struggente, perfetta per interpretare le gioie e i dolori del nostro tempo – che contribuisce a creare atmosfere visceralmente blues.
Il voler allontanarsi, per un periodo più o meno lungo, dalla musica italiana d’autore appare una scelta coerente con il suo essere, che lo porta a non seguire “le stanche regole del branco” e a non accettare né operazioni di marketing, né compromessi.
Anima*Blues può sembrare in controtendenza rispetto alla carriera di Finardi. In realtà, nasce dalla sua infinita passione per la musica, quella vera, concepita solo per il piacere di suonare, cantare e trascendere…
Coerenza e passione da cui sono nati capolavori come “Musica ribelle”, “Diesel”, “Extraterrestre”, “Le ragazze di Osaka”, “Amore diverso”, “Soweto”, “Mezzaluna”: brani che esprimono solo un aspetto della variegata complessità dell’artista Finardi. Con Anima*Blues dischiude l’altro lato della sua personalità di musicista, oltrepassando i luoghi comuni e dimostrando che il blues non solo lo suona, ma lo ha realmente.

Intervista di Silvia C. Turrin © originariamente pubblicata sul sito di Amadeus

 

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