Africa Storia e Archeologia

Stephen Biko, la consapevolezza come strumento di liberazione

Sebbene non si fosse mai proclamato leader e avesse sempre scoraggiato il culto della personalità, di fatto, Stephen Biko rappresentò, all’interno del BCM, la principale figura dotata di particolare acume intellettuale e di profonda sensibilità.

Egli evitò in tutti i modi di porsi come capo carismatico, lasciando che fossero altri dirigenti a svolgere ruoli di primo piano, ma, come sottolineò del resto il suo grande amico Donald Woods, Biko “fin dalla prima gioventù era palesemente un capo e come tale percepito da un così gran numero di suoi contemporanei, che tutti si rivolgevano a lui in qualsiasi riunione a cui partecipasse”.[1]

La sensazione che Biko avesse qualità umane e capacità singolari emerge dai documenti da lui elaborati, che spiegano la genesi e la filosofia del movimento della Consapevolezza Nera. È perciò opportuno approfondire, in un paragrafo specifico, la sua vita, breve, ma intensa.

Stephen Biko nacque il 18 dicembre 1946, a King William’s Town, sobborgo situato alla periferia di Bisho, poco distante dalla città costiera di East London (provincia dell’Eastern Cape).

Egli fu il terzo dei quattro figli che la coppia Mzingaye e Alice Duna “Mamcete” Biko concepì.[2] Nel 1950, Mzingaye Biko, di professione poliziotto, morì.

Le entrate finanziarie della famiglia, da quel momento, dipesero dal lavoro della madre, prima domestica, poi cuoca presso il Grey Hospital di King William’s Town.[3]

Biko frequentò la scuola elementare Charles Morgan e la scuola media di Forbes Grant, per poi accedere, tramite borsa di studio, all’Istituto Superiore Lovedale, presso Alice, sobborgo di King William’s Town, dove dopo solo pochi mesi, con il fratello Khaya, venne arrestato per presunta complicità nelle azioni condotte dal Poqo, ala militare del PAC. Nonostante fu provata la totale estraneità di Biko ai fatti che gli erano imputati, egli venne sospeso definitivamente dal Lovedale. In seguito, si iscrisse al St. Francis’ College di Mariannhill (nel Natal), collegio Cattolico gestito da suore e preti di orientamento liberale. Fu in questo periodo − metà degli anni ’60 − che iniziò un’assidua corrispondenza con Padre Aelred Stubbs, della Comunità Anglicana della Resurrezione, della quale era direttore presso il St. Peter’s College, ad Alice. Durante i suoi studi al St. Francis’ College, Biko si interessò alle vicende che stavano accadendo entro i confini del variegato continente africano, legate soprattutto al processo di indipendenza in atto in diversi paesi: Oginga Jaramogi Odinga, uno dei più importanti leader politici kenioti, Mohmmed Ben Bella, nazionalista algerino, Kenneth Kaunda, presidente dello Zambia, Sékou Touré, uomo politico della Guinea, Aimé Césaire e Frantz Fanon furono alcuni dei personaggi più ammirati da Biko.

Nel 1966, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università del Natal (Non-European Section), dove iniziò a sviluppare il suo particolare interesse verso la politica, divenendo uno dei più importanti membri dello SRC presente nel college.

Immagine che ritrae Steve Biko al centro e a fianco due rappresentanti della NUSAS, tra cui Neville Curtis (sulla destra) – Foto di Silvia C. Turrin scattata nella casa-museo di Biko a King William’s Town

In base alla sua precedente formazione cattolico-liberale, inizialmente si avvicinò alle posizioni della multirazziale NUSAS, ma, a partire dal 1968, l’infruttuosità di tale collaborazione divenne sempre più evidente, tanto che nel ’69, Biko fu uno dei principali artefici della creazione della SASO, di cui divenne primo presidente. Alla fine degli anni ’60, egli conobbe una delle figure femminili di maggior rilievo del BCM, Mamphela Ramphele, con la quale instaurò un peculiare rapporto professionale (in seguito, anche sentimentale).[4]

Nel 1970, Biko sposò Montsikelelo (Ntsiki) Mashalaba, dalla quale ebbe due figli: Nkosinathi e Samora, nati rispettivamente nel 1971 e nel 1975.

Nel luglio del ’70, presidente della SASO divenne Barney Nyameko Pityana, mentre Biko fu eletto responsabile delle pubblicazioni dell’organizzazione e dal mese di agosto iniziò a realizzare, all’interno della SASO Newsletter, la sua rubrica intitolata I write what I like, firmandola con lo pseudonimo di Frank Talk.[5]

Il 1972 fu un anno cruciale nella vita di Biko, perché decise di abbandonare la facoltà di medicina, dedicandosi interamente all’attivismo politico, abbracciando, senza più indugi, la lotta di liberazione del suo popolo. Proprio come accadde a Nelson Mandela, egli intraprese un cammino diverso rispetto a quello tracciato per lui dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza: diventare medico e agire entro una società soggetta a rigidi controlli interposti dal regime di apartheid divenne per lui impossibile, nel momento in cui sentì il bisogno di operare a favore dell’intera collettività degli oppressi.[6]

Nell’agosto del ’72, Biko si unì allo staff dei Black Community Programmes, avviati già un anno prima, la cui sede era Beatrice Street, 86, presso Durban. Si dedicò poi al progetto di creazione di una rivista annuale che fornisse dettagli in merito all’operato del BCM e che abbracciasse svariati temi: dal teatro, all’educazione, dalle organizzazioni politiche ai processi politici.

Venne così progettata e realizzata la Black Review della quale egli avrebbe dovuto essere l’editore, ma a causa della sua messa al bando, avvenuta nel 1973, la pubblicazione venne affidata a Ben Khoapa.

Immagine che ritrae la famiglia del giornalista Donald Woods (il terzo da destra) – foto di Silvia C. Turrin scattata all’interno della casa-museo di Biko presso King William’s Town

L’ordine di residenza coatta − emesso per il suo coinvolgimento nelle attività della BPC − lo confinò presso King William’s Town, dove, di nascosto, continuò a lavorare per la sezione locale dei BCP.[7] Fu nel 1973 che decise di iniziare a studiare legge, per corrispondenza, iscrivendosi presso l’Università del Sudafrica (UNISA) e, sempre in quell’anno, conobbe l’editore del quotidiano sudafricano Daily Dispatch, Donald Woods, col quale instaurò una profonda e speciale amicizia.[8]

Nonostante gli ormai innumerevoli controlli e ostacoli governativi, Biko era totalmente coinvolto nello sviluppo del BCM, appoggiando con entusiasmo, nel giugno del 1972, la creazione di un’ala politica del movimento, denominata Black People’s Convention.

In ogni sua attività, cercava di enfatizzare l’importanza del processo di emancipazione psicologico-culturale degli oppressi, realizzabile attraverso la loro diretta partecipazione ai programmi comunitari promossi dai Black Community Programmes, grazie ai quali l’esistenza quotidiana dei black veniva concretamente migliorata da loro stessi, tramite corsi di alfabetizzazione e la costruzione di scuole, ospedali. In tal modo, i gruppi discriminati e ritenuti inferiori, conducendo personalmente i progetti, prendevano coscienza delle loro effettive capacità, oscurate e negate da una società razzista. L’enfasi sul processo di introspezione e auto-realizzazione attirò l’attenzione delle forze governative, ormai resesi conto del potenziale pericolo del BCM. Ogni azione da questi condotta, veniva attentamente esaminata e, nel caso, ostacolata, come avvenne in occasione dei comizi promossi dal movimento per commemorare la raggiunta indipendenza del Mozambico nel 1974. I raduni, nonostante gli impedimenti apposti dalle autorità, si svolsero a Durban e nel campus di Turfloop, durante i quali le parole d’ordine furono “Viva Frelimo”. Nel primo caso, la polizia riuscì a disperdere senza violenza i manifestanti, ma presso Turfloop si verificarono scontri fra le forze dell’ordine e gli studenti.

In seguito, il governo intraprese una massiccia campagna di arresti di esponenti della SASO e della BPC, poi processati l’anno seguente. Tra questi, non figurava un nome eccellente, quello di Stephen Biko, essenzialmente per due motivi: le forze di sicurezza non riuscirono a trovare un suo coinvolgimento attivo nelle organizzazioni portate a giudizio, anche perché credettero che Frank Talk fosse in realtà lo pseudonimo di Strini Moodley; inoltre, furono le sezioni della polizia del Natal e del Transvaal ad arrestare gli accusati, mentre quelle dell’Eastern Cape − regione dove si trovava Stephen Biko − non intrapresero lo stesso atteggiamento di persecuzione.

Egli, comunque, partecipò alle udienze in qualità di testimone della difesa e utilizzò l’aula del tribunale per diffondere il messaggio del BCM e per rivendicare i diritti degli oppressi.[9]

Durante il 1975, egli appoggiò l’idea di formare una sorta di unione dei principali movimenti di liberazione, tramite cui saldare le specifiche risorse materiali e intangibili dell’ANC, del PAC e della giovane BPC.

I contatti fra i rappresentanti delle varie organizzazioni furono numerosi, anche se difficili, a causa sia delle difficoltà di comunicazione e di incontro, sia del clima di agitazione e di repressione che si stava formando, durante la metà degli anni ’70, culminato nel massacro di Soweto.[10] In seguito al tragico evento, il governo radicalizzò le misure repressive.

Il BCM e tutti i suoi esponenti rappresentavano, all’epoca, la principale minaccia interna allo status quo, questo, in parte già modificato, grazie alla riuscita genesi di una consapevolezza critica. Per il movimento, il periodo post-Soweto rappresentò la fase più critica e pericolosa di tutta la sua esistenza: ogni azione condotta dai suoi componenti poteva risultare fatale e, così, è stato. Il 15 luglio 1976, Mapetla Mohapi del BCM fu arrestato, in base al Terrorism Act, e detenuto presso la stazione di polizia di Kei Road: tre settimane dopo, il 5 agosto, morì in detenzione, ufficialmente la causa fu suicidio mediante impiccagione.

Il 18 agosto 1977, Stephen Biko e l’amico Peter Jones, si imbatterono in un blocco stradale della Security Police, nei dintorni di Grahamstown (provincia orientale del Capo). Furono arrestati sulla base dell’Art.6 del Terrorism Act, ai sensi del quale una persona poteva essere soggetta a detenzione incommunicado e per un tempo indeterminato.[11] Vennero separati e le loro sorti furono molto diverse.

Peter Jones, dopo 533 giorni di detenzione e di torture fisiche e psicologiche, venne rilasciato nel febbraio 1979. Stephen Biko il 12 settembre 1977 morì a causa delle torture subite durante la sua detenzione.

foto Silvia C. Turrin – Steve Biko Garden of Remembrance

È importante sottolineare che nel corso del 1977, Biko si impegnò notevolmente in due progetti: il primo consisteva nell’informare l’opinione pubblica mondiale della situazione reale vissuta dalla maggioranza della popolazione sudafricana. A tal proposito, rilasciò numerose interviste a giornalisti stranieri e incontrò diplomatici, fra cui il secondo segretario dell’Ambasciata australiana, Bruce Haigh.

L’altro progetto era potenzialmente destabilizzante per l’élite governativa, perché prevedeva la formazione di un unico movimento di liberazione, concepibile dall’unione di gruppi quali ANC, PAC, BCM e, possibilmente, altre forze di opposizione.[12] Fu anche per questa ragione che Biko si recò a Cape Town con Peter Jones. Infatti, era intenzionato a discutere con Neville Alexander di eventuali contatti anche con lo Unity Movement: gruppo politico importante nel Western Cape, di cui faceva parte proprio Alexander.[13]

Questi, per la pericolosità dell’incontro, mandò un messaggio a Biko, nel quale dichiarava la sua impossibilità a vederlo, perché soggetto agli arresti domiciliari e costantemente sorvegliato dalla polizia. Tale comunicazione non giunse mai nelle mani di Biko, il quale, sfidando ancora una volta la messa al bando alla quale era costretto, si recò a Cape Town e aspettò inutilmente per tre ore davanti alla casa di Alexander. Quel viaggio, fondamentalmente infruttuoso per il BCM, risultò fatale per Biko, divenuto ormai personaggio pericoloso e scomodo. Il 19 ottobre 1977, cinque settimane dopo il decesso di Biko, tutte le organizzazioni collegate direttamente e indirettamente al BCM vennero dichiarate illegali.

Nonostante gli sforzi governativi diretti a reprimere ogni forma di opposizione al regime di apartheid, la consapevolezza critica, l’orgoglio black e lo spirito combattivo promossi da Biko nel corso della sua breve esistenza si erano ormai impossessati delle nuove generazioni, le quali iniettarono nuova linfa vitale anche a tutte quelle forze da tempo in esilio dal Sudafrica. L’organizzazione che assorbì maggiormente questo nuovo attivismo fu certamente l’ANC, alla quale si unirono moltissimi studenti che lasciarono il Sudafrica dopo il massacro di Soweto. Essi ingrossarono le fila della guerriglia dell’Umkhonto we Sizwe (MK), permettendo una vera e propria rinascita dell’ANC, alla quale contribuì anche il lavoro di risveglio psicologico e di ricerca di auto-stima condotto da Stephen Bantu Biko.

Estratto dal mio libro Il movimento della Consapevolezza Nera in Sudafrica. Dalle origini al lascito di Stephen Biko (Erga, Genova, 2011)

Cover libro Il movimento della Consapevolezza Nera in Sudafrica

[1]Cfr. D. Woods, Biko, cit., p.44.

[2]La primogenita fu Bukelwa, il secondo genito fu Khaya, mentre la più giovane fu Nobandile.

[3]Come mette in evidenza Jacklyn Cock, Biko sperimentò direttamente e per la prima volta lo sfruttamento economico dei neri da parte dei bianchi osservando le dure condizioni lavorative alle quali sua madre era costretta a sottostare in qualità di lavoratrice domestica. Cfr. Jacklyn Cock, Maids and Madams: domestic workers under apartheid, London, The women’s Press, 1989, p.3.

[4]Mamphela Ramphele è stata una delle figure femminili più combattive e preparate del BCM.

[5]Biko rimase presidente della SASO solo per un anno, dal 1969 al ’70. Questo perché riteneva importante affermare all’interno del BCM il principio della collegialità, tramite il quale ogni componente, essendo portatore di specifiche e personali abilità, doveva partecipare e contribuire alla causa di liberazione degli oppressi. In questo modo, cercò al contempo di evitare la formazione del culto della personalità, caratteristico di molte organizzazioni partitiche e movimenti politici.

[6]Anche Nelson Mandela decise di percorrere una via differente rispetto a quella che era stata tracciata per lui. Egli avrebbe dovuto diventare consigliere dei governanti della tribù thembu, alla quale apparteneva, proprio come suo padre, ma scelse la strada più difficile che lo condusse a 27 anni di prigionia e alla liberazione del popolo sudafricano dalle catene del razzismo e dello sfruttamento.

[7]Nel 1973, oltre a Stephen Biko, furono soggetti alla misura della messa al bando anche altri esponenti di primo piano del BCM, quali Barney Pityana, Strini Moodley (uno dei fondatori del TECON ed editore della SASO Newsletter), Saths Cooper (addetto alle relazioni pubbliche della Black People’s Convention (BPC), Drake Koka (membro fondatore della BPC e segretario generale della Black Allied Workers’ Union (BAWU), Bokwe Mafuna, Jerry Modisane e Herry Nengwekhulu. Cfr. Michael Lobban, White Man’s Justice. South African Political Trials in the Black Consciousness Era, Oxford, Clarendom Press, 1996, p.27, nota n.27.

[8]Donald Woods, prima di conoscere personalmente Biko, lo riteneva portatore di un esclusivismo nero, fautore di un razzismo alla rovescia. Essendo un convinto liberale, Woods condivideva le stesse critiche mosse da Alan Paton al BCM. In un suo editoriale datato 10 agosto 1971, Donald Woods definì la SASO come una delle manifestazioni più tristi della politica razzista e l’accusò di promuovere l’apartheid attraverso l’incoraggiamento dell’idea dell’esclusività razziale, stando così al gioco del governo. Cfr. Les Switzer; Mohamed Adhikari, (edited by), South Africa’s Resistance Press, cit., p.213, nota n.15. In seguito al suo diretto contatto con Biko, cambiò decisamente opinione e, anzi, iniziò a rivedere le proprie idee nate in un ambiente distante dal mondo di oppressione e di discriminazione, nel quale crebbe invece Biko. Fra i due nacque uno speciale rapporto d’amicizia, testimoniato dal fatto che la reale dinamica del decesso di Biko venne portata all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale solo grazie alla coraggiosa fuga di Woods dal Sudafrica. Egli riuscì in tal modo a pubblicare due libri, Biko (biografia spesso citata in questo lavoro) e Asking for trouble (In cerca di guai. Autobiografia), che documentano ampiamente la vera causa della morte di Biko: non dovuta allo sciopero della fame, come sostenuto ufficialmente dal governo, bensì provocata da un forte colpo alla testa che aveva originato lesioni cerebrali irreversibili. Dagli scritti di Woods, Sir Richard Attenborough realizzò, nel 1987, il film Cry Freedom (Grido di libertà), interpretato da Denzel Washington e da Kevin Kleine (rispettivamente nel ruolo di Biko e di Donald Woods). Woods è deceduto nell’agosto 2001, per un male incurabile. L’ultimo libro da lui scritto è Rainbow Nation Revisited: South Africa’s decade of democracy, London, André Deutch, 2000.

[9]Si può rilevare un precedente nell’uso strumentale della corte per affermare i diritti della popolazione discriminata: ciò avvenne durante il processo di Rivonia e il protagonista fu allora Nelson Mandela.

[10]Migliaia di studenti si riunirono per le strade di Soweto, township di Johannesburg, manifestando pacificamente contro il sistema della Bantu Education e contro l’introduzione dell’afrikaans come lingua veicolare per lo studio di determinate materie nelle scuole primarie e secondarie. L’afrikaans incarnava il linguaggio usato dall’oppressore ed era altamente limitante perché era l’inglese l’idioma più parlato e più funzionale a livello professionale. Questa decisione scatenò la reazione degli studenti neri e degli insegnanti. Il 16 giugno 1976, di fronte ad una folle inerme, la polizia fece fuoco, uccidendo il tredicenne Hector Pieterson e molti altri manifestanti. I ragazzi reagirono con sassi e bastoni, causando l’uccisione e il ferimento di altre persone. L’evento infiammò gli animi della popolazione di Soweto e dell’intero paese. Vennero indetti boicottaggi delle lezioni, molte scuole vennero chiuse e numerosi edifici furono incendiati. Anche i lavoratori appoggiarono la protesta, partecipando alla campagna stay-at-home indetta dagli studenti. Le agitazioni si placarono solo nell’aprile del ’78. La rivolta di Soweto è analizzata in modo più dettagliato nel paragrafo 5.4.

[11] Stephen Biko fu più volte arrestato ai sensi della Sezione 6 del Terrorism Act: nel 1975 fu detenuto per 137 giorni senza processo, né precise accuse; nel 1976, in seguito alla rivolta di Soweto, fu tenuto in isolamento per 101 giorni; fu poi arrestato nel marzo e nel luglio del ’77; infine, nell’agosto, sempre del 1977, fu nuovamente imprigionato, sino alla sua morte in detenzione. Cfr. Francis Meli , South Africa belongs to us: a history of the ANC, London, James Currey, 1989, p.177.

[12]L’idea di unire le forze di opposizione in un unico movimento non verrà dispersa, ma concretizzata successivamente con la formazione dello United Democratic Front, organizzazione eterogenea alla quale si aggregarono centinaia di gruppi appartenenti al mondo sindacale, religioso, studentesco, politico, molto vicina alle posizioni dell’ANC. Una delle sue figure eminenti fu Desmond Tutu. In seguito, si formò anche il National Forum Committee composto dall’AZAPO e dal Congress of South African Students.

[13]Neville Alexander, intellettuale nato nel 1936 e laureatosi presso l’Università di Cape Town. Nel 1964, venne arrestato con l’accusa di cospirazione e sabotaggio e imprigionato a Robben Island sino al ’74. Durante il periodo della messa al bando, scrisse il libro intitolato One Azania, One Nation: the national question in South Africa, pubblicato con lo pseudonimo di No Sizwe nel 1979. Nel 1974, scrisse un articolo, intitolato Black Consciousness: a reactionary tendency? nel quale analizzava la posizione del BCM, appoggiando molte idee, ma criticandone l’approccio incentrato sulla dicotomia nero/oppresso, bianco/oppressore. Cfr. Charles Villa-Vicencio, The spirit of freedom. South African leaders on religion and politics, Berkeley, University of California Press, 1996, pp.15 e 16. L’articolo di N. Alexander scritto nel 1974 è ripreso e riadattato in B. N. Pityana, (a cura di), Bounds of possibility, cit., pp.238-252.

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