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Mandela, luci e ombre sul film tratto dalla sua Autobiografia

Alla fine di dicembre, ho avuto l’occasione di vedere in Francia la tanto attesa pellicola Mandela: Long Walk to Freedom di cui ho già scritto (si veda in proposito l’articolo Il Lungo cammino di Mandela verso la libertà diventa un film).

La prima osservazione che mi sento di sottolineare è che nella sala in maggioranza vi erano giovani, ragazze e ragazzi, adolescenti e sulla ventina: una situazione che mi ha fatto di certo piacere, ma ovviamente anche riflettere. Mi sono chiesta se fosse solo una coincidenza, o se invece siano i giovani i più sensibili a certe tematiche impegnate e, per certi aspetti, idealistiche. Forse la figura di Mandela affascina maggiormente le nuove generazioni, poiché gli adulti sono disillusi, disincantati e pessimisti riguardo al futuro? Forse i giovani sentono il bisogno di avere come esempio figure coerenti, coraggiose, promotrici di alti principi morali?

La seconda osservazione riguarda il religioso silenzio che vi era nell’attesa dell’inizio del film. Nessuno che alzava la voce, non c’era alcun rumore e se i presenti parlavano lo facevano talmente sottovoce che le parole erano impercettibili. Non mi era mai capitato prima…

Le altre osservazioni, finalmente, riguardano propriamente questo lungometraggio prodotto dal sudafricano (di chiare origini asiatiche) Anant Singh e diretto da Justin Chadwick. Ero molto curiosa di capire quale impostazione avesse dato il produttore, oltre che vedere quali episodi della lunga vita di Mandela fossero stati scelti per rappresentarli in una pellicola tra le più attese degli ultimi dieci anni. Le prime immagini sono altamente evocative. Si ammira l’immensità del veld sudafricano, e i suoi caldi colori. Si vede un gruppo di bambini correre in questa natura vitale quanto lo sono loro. Poi si giunge alla cerimonia della circoncisione, quando i ragazzi entrano nella fase dell’età adulta: compiuti i vari rituali, cosparso il loro intero corpo di ocra bianca, le capanne dove avevano alloggiato per questa cerimonia vengono bruciate in segno di netta recisione col passato, con l’infanzia. È qui che il bambino Madiba conclude il suo percorso per entrare nella fase adulta. È qui che inizia il lungo cammino verso la libertà di Mandela…

Se queste prime immagini sono altamente evocative, quelle seguenti appaiono un po’ confuse, veloci, basate più sulla vita privata di Mandela che non sulle vicende propriamente storico-politiche. Viene raccontato brevemente il suo primo matrimonio con Evelyn Mase, poi la crisi tra loro, il tradimento di Mandela e poi la definitiva rottura. Scene che in realtà non aggiungono molto al racconto, poiché troppo rapide e talvolta poco chiare: per esempio nel film non viene riportato in modo chiaro che Evelyn si era avvicinata all’organizzazione dei Testimoni di Geova e che la sua filosofia di vita era completamente distaccata dalla politica. Se gli episodi iniziali della vita di Mandela a Johannesburg possono suscitare perplessità, soprattutto fra quanti hanno letto la sua Autobiografia (dal momento della circoncisione il regista passa direttamente al 1942, quando Mandela aveva abbandonato il Transkei e dopo varie peripezie era riuscito a diventare avvocato e ad aprire lo studio con Oliver Tambo), dopo il matrimonio con Winnie si passa alla fase più politica della sua vita: la clandestinità, l’impegno nell’Anc, poi nell’Umkhonto we Sizwe attraverso cui vengono compiuti vari sabotaggi in tutto il Sudafrica.

Dal punto di vista propriamente storico, il film non appare un documento di alto valore, come si può invece dire per la trasposizione della vita di Gandhi compiuta dal regista Sir Richard Attenborough, per il quale ha vinto due premi Oscar (come miglior film e come miglior regista). Ecco, alla fine di Mandela: Long Walk to Freedom mi sono chiesta come Attenborough avrebbe esposto la straordinaria battaglia per la libertà compiuta da Madiba. Certamente l’aspetto storico sarebbe emerso con più forza, con più chiarezza e lucidità.

Complessivamente, ad un primo livello d’impatto il lavoro compiuto da Anant Singh emoziona, porta alla commozione, tocca la parte più sensibile del sé, questo grazie anche all’utilizzo sapiente del suono: le musiche sono inserite nel momento giusto, con il ritmo e gli arrangiamenti giusti. Tuttavia, ad un secondo livello meno superficiale, a mio avviso questo film è al di sotto delle aspettative, poiché non riesce a cogliere tutta la grandezza di Mandela, tutti i sacrifici da lui compiti, tutto il suo desiderio di sacrificarsi per il popolo sudafricano e per la libertà del Sudafrica. Molti episodi della sua vita descritti da Anant Singh si erano già visti in pellicole precedenti (tra cui Invictus e Goodbye Bafana), come la scena a Robben Island del ritaglio di giornale in cui si parla dell’arresto di Winnie o come le vicende successive al trasferimento di Mandela e compagni verso le prigioni di Poolsmor.

Paradossalmente, l’aspetto più originale del film è la descrizione della figura di Winnie, della sua metamorfosi da ragazza innamorata, idealista e con tante paure a donna coraggiosa, capace di fomentare l’odio razziale e di attizzare la guerra tra bianchi e neri. Bravo il regista nel far capire quanto abbia pesato sul suo cambiamento di personalità il periodo di 16 mesi in isolamento, scandito da torture e abusi non solo psicologici. Ed è proprio su questo aspetto che si scorge la profonda differenza tra il destino di Winnie e quello di Mandela, tra la reazione di Winnie ai maltrattamenti e la reazione di Mandela ai 27 anni di carcere. Le violenze e le oppressioni perpetrate dal regime di apartheid hanno scalfito profondamente Winnie, le hanno lasciato un segno indelebile che l’ha portata a cambiare radicalmente, sino a diventare quasi una rivoluzionaria che inneggia alla violenza e alla vendetta. Mandela, invece, nonostante i terribili soprusi che ha visto e che lui stesso ha subito, ha dimostrato di possedere un’ampia visione d’insieme, alti principi morali, pragmatismo e lucidità, tanto da voler preferire il dialogo al conflitto, la riconciliazione alla vendetta.

E questo aspetto Anant Singh e Justin Chadwick lo hanno descritto egregiamente. Un film, si sa, desta critiche o apprezzamenti per come viene sviluppato e per le scelte stilistiche, e Long Walk to Freedom presenta sia punti deboli, sia elementi pregevoli. Ciò che non viene scalfito è il valore morale della pellicola, poiché conduce gli spettatori in un’epoca storica che non dovrà mai e poi mai ripetersi: quella in cui un uomo nega i diritti e la libertà a un altro uomo, solo per il colore della sua pelle. Tuttavia, guardando ciò che accade in tanti luoghi del globo, l’apartheid, seppur in forme diverse e con differenti sfumature, sopravvive con il suo spregevole volto di sfruttatore razzista.

Silvia C. Turrin©

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