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La lunga marcia degli afroamericani verso l’emancipazione

Il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale fu per gli Stati Uniti caratterizzato da rivendicazioni degli afroamericani volte a ottenere piena integrazione nella società americana. A tal fine la comunità nera attuò una serie di forme di protesta che andavano dal boicottaggio ai sit-in, dalla resistenza organizzata nelle istituzioni alle cause giudiziarie.

Tra queste, una delle più importanti riguardò il caso Brown contro il Provveditore all’Istruzione di Topeka: storico processo che fu possibile grazie sia al Congress of Racial Equality (associazione composta da bianchi e neri, nata nel 1942 a Chicago, ispirata agli ideali di non violenza gandhiani), sia alla NAACP i cui avvocati (tra i quali emerge il nome di Thurgood Marshall) intrapresero numerose azioni legali che permisero il raggiungimento della storica sentenza del 17 maggio 1954. In quella data, la Corte Suprema affermò che il principio “separati, ma eguali” applicato al sistema dell’educazione pubblica era incostituzionale, violando, tra gli altri, il XIV Emendamento.

Rosa Parks e il boicottaggio degli autobus di Montgomery

Sebbene con tale sentenza venne rovesciata la decisione presa nel 1896 in occasione del caso Plessy contro Ferguson, la pratica della segregazione razziale non scomparve. Durante la metà degli anni ’50, si afferma pienamente il movimento per i diritti civili. L’evento che influenzò la storia degli afroamericani avvenne il primo dicembre 1955. Quel giorno, Rosa Parks, appartenente alla sezione della NAACP di Montgomery, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco, sull’autobus di linea cittadino, come le leggi dello stato dell’Alabama permettevano. Quel gesto coraggioso diede vita al famoso boicottaggio degli autobus di Montgomery, durato per più di trecento giorni.

L’emergere della figura di Martin Luther King

In quell’occasione iniziò a circolare all’interno della comunità nera il nome di un allora sconosciuto Martin Luther King: fu nominato presidente della Montgomery Improvement Association (MIA), associazione sorta appositamente per condurre e gestire una delle forme di protesta più riuscite, di carattere non violento, da parte degli afroamericani. Grazie a questa importante iniziativa, la Corte Suprema, il 21 dicembre 1956, dichiarò incostituzionale la segregazione sugli autobus. Il boicottaggio di Montgomery fu un evento centrale per l’emancipazione degli afroamericani, non solo perché permise di far conoscere all’intera nazione il vero volto del razzismo ancora imperante negli Stati Uniti, ma anche perché mostrò l’efficacia della protesta non violenta di cui si fece portavoce il Reverendo King.

Il razzismo non si ferma

Un importante risultato conseguito dal “Movimento per la libertà” (come veniva chiamato dai suoi sostenitori il Movimento per i diritti civili) fu l’approvazione del Civil Rights Act, emanato dall’amministrazione Eisenhower nel 1957, con l’obiettivo di permettere agli afroamericani di esercitare il diritto di voto. Nonostante l’approvazione della legge, la percentuale dei votanti neri rimase molto bassa a causa delle violenze, dei linciaggi e addirittura degli assassini perpetrati da vari gruppi razzisti, come il Ku Klux Klan e i White Citizen’s Councils.

Le vittorie conseguite negli anni ’50 e le azioni intraprese da organizzazioni per i diritti civili come la National Association for the Advancement of Colored People e la Montgomery Improvement Association riuscirono a creare all’interno della comunità nera sentimenti di fiducia nelle proprie capacità. Nel corso degli anni ’60, nacque una nuova forma di protesta, il sit-in, con il quale si attaccavano le leggi e i costumi che proibivano agli afroamericani di frequentare luoghi riservati esclusivamente ai bianchi. Dopo il primo importante sit-in, nato spontaneamente il primo febbraio 1960 nella cittadina di Greensboro (North Carolina), decine e decine di neri attuarono questa nuova pacifica strategia. Le azioni di tipo non violento, l’avvento alla Casa Bianca di John F. Kennedy prima (1960-1963) e di Lyndon B. Johnson poi (1963-1968) e le attività intraprese dal Dipartimento di Giustizia diretto da Robert Kennedy, diedero inizio al processo di desegregazione: obiettivo però contrastato da una serie di violenze e omicidi.

Verso la marcia di Washington

Il 12 giugno 1963 venne assassinato uno dei più celebri attivisti della NAACP, Medgar Evers e, sempre in quell’anno, il governatore dell’Alabama, George Wallace si fece portavoce del razzismo ancora imperante negli Stati del Sud non solo diffondendo lo slogan “segregazione adesso, segregazione domani, segregazione per sempre”, ma andando anche a picchettare personalmente di fronte a svariate Università del Sud per impedire l’ingresso agli studenti neri.

I have a dream

Nello stesso 1963, il presidente Kennedy aveva inviato al Congresso americano la proposta di legge in base alla quale chiedeva di porre fine alla segregazione ed esortava che fossero effettivamente garantiti il diritto di voto e le libertà agli afroamericani. In questo contesto, anche per far pressione affinché tale progetto legislativo fosse approvato, nellagosto del 1963 venne organizzata la marcia su Washington, alla quale presero parte circa 250 mila persone, tra le quali si stima ci fossero 60 mila bianchi. In quell’occasione, Martin Luther King pronunciò il suo celebre discorso I have a dream. Dopo circa un anno dallo storico evento, fu approvato il Civil Right Act (1964) che rendeva incostituzionale ogni forma di discriminazione. L’anno seguente il presidente Johnson fece approvare il Voting Rights Act attraverso il quale furono abolite le tasse elettorali e altre leggi dirette a impedire il voto alla comunità nera. Questi provvedimenti apparirono positivi a molti e furono ben accolti da leader moderati come King. In realtà, la radice sociale e culturale della discriminazione non fu intaccata, né nel Sud, né nel Nord degli Stati Uniti, dove la maggior parte dei neri viveva relegata nei ghetti.

Malcolm X

Leggi come il Civil Right Act e il Voting Rights Act non modificarono realmente le condizioni socio-economiche in cui i neri erano costretti a vivere. L’insoddisfazione e la frustrazione sfociarono in rabbia e in molte città, nel corso degli anni ’60, si verificarono svariati tumulti: si ricordano, per la brutale violenza con cui agivano le forze di polizia, quelli di Harlem (1964), Watts (1965) e Detroit (1967). In questo contesto, il progetto e le azioni moderate di Martin Luther King furono criticate da molti esponenti della comunità nera, in quanto la povertà, le difficoltà nel trovare casa e lavoro rappresentavano ancora una costante. Uno degli esponenti neri che più aspramente criticò il moderatismo del Reverendo King fu Malcolm X, secondo il quale, per ottenere la liberazione e la fine della discriminazione, gli afroamericani avrebbero prima dovuto sviluppare un forte sentimento di unità e, per far ciò, era necessario che eliminassero sia il diffuso sentimento di self-hate, sia la schiavitù mentale che ostacolava ogni loro azione. Malcolm X recuperò le idee di autodeterminazione e di nazionalismo nero tratteggiate già all’inizio del XX secolo da Marcus Garvey, ma le elaborò in modo molto più esaustivo e complesso.


Malcom X esortò i neri a recuperare la loro storia e le proprie radici culturali, affinché potessero definire una specifica identità. Il processo di auto-conoscenza (self-knowledge) costituiva dunque per Malcolm X la precondizione del self-love (stima in sé stessi) e del black pride (orgoglio nero): stimoli potentissimi per la lotta di liberazione. A differenza del Movimento per i diritti civili capeggiato da King, Malcolm X – almeno sino a quando fu portavoce dei Black Muslims – esortò gli afroamericani all’auto-difesa (self-defense), promuovendo così l’uso della violenza per affermare i diritti e le libertà del popolo nero.

Solo dopo aver abbandonato i Musulmani Neri e, soprattutto, dopo il suo pellegrinaggio alla Mecca e dopo aver intrapreso un viaggio in Africa (dove conobbe importanti personalità, quali Julius Nyerere, Kwame Nkrumah, Jomo Kenyatta), Malcolm X attenuò il proprio estremismo. Divenne sostenitore della solidarietà razziale e della fratellanza fra i popoli: un cambiamento anche suggellato dalla modifica del suo nome in El-Hajj Malik El-Shabazz.

Black Power!

La popolarità di Malcolm X assunse dimensioni rilevanti solo in seguito al suo drammatico assassinio, avvenuto il 21 febbraio 1965. Le sue idee furono riprese da un gruppo interno al movimento per i diritti civili. Il 16 giugno 1966, a Greenwood (Mississippi), Stokely Carmichael dichiarò che “Il solo modo in cui noi possiamo fermare l’uomo bianco è andare oltre. È da sei anni che chiediamo libertà e non abbiamo ottenuto nulla. Ciò che dobbiamo iniziare a dire adesso è Black Power!”. Proprio il Potere Nero divenne l’altra anima, più radicale, del movimento per i diritti civili: esaltò la fierezza nera, il Black pride invocato anni prima da Malcolm X e il concetto di blackness fu utilizzato non per esprimere una specifica appartenenza razziale, ma per affermare la consapevolezza di sé e una specifica coscienza politica di chi subiva ingiustizie.

L’assassinio di Martin Luther King

Mentre la comunità nera cercava di risolvere i problemi della segregazione e del razzismo attuando una risposta, da un lato moderata, dall’altro radicale, anche le istituzioni federali avevano ufficialmente riconosciuto la gravità della situazione vissuta dagli afroamericani. Nel 1968, la commissione Kerner, voluta dal presidente Johnson, stilò un rapporto secondo cui negli Stati Uniti si stavano formando due distinte società “una nera, una bianca, separate e ineguali”. Il documento denunciava non solo la discriminazione, ma anche la povertà ormai cronica, l’alto tasso di disoccupazione, la mancanza di strutture scolastiche e sanitarie adeguate e la sistematica brutalità della polizia contro gli afroamericani. Nello stesso anno in cui fu pubblicato il rapporto, la comunità nera subì un duro colpo: Martin Luther King venne assassinato, il 4 aprile 1968.

Silvia C. Turrin

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