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Jazz, strumento di riscatto sociale

“Fratello Hugh”, così il grande trombettista viene chiamato affettuosamente in Sudafrica, sua terra natale, da cui per 30 lunghi anni è stato lontano a causa del regime dispotico di apartheid. Hugh Ramopolo Masekela, superando le discriminazioni razziali e le lacerazioni interiori di un esilio forzato, ha espresso il suo messaggio di libertà attraverso la musica.

Tromba e flicorno sono per lui strumenti attraverso i quali diffondere non solo intrecci sonori africani e cosmopoliti di alto spessore, ma anche espressioni di protesta contro politiche discriminatorie. Entrato ormai da decenni nel novero delle leggende del jazz internazionale, ha registrato più di quaranta album e venduto milioni di dischi in tutto il mondo. Nato il 4 aprile 1939, a Witbank, Masekela fu costretto ad abbandonare il proprio villaggio d’origine, per trasferirsi alle porte di Johannesburg, nella ben nota township di Soweto.

Il film Young Man With A Horn, il cui protagonista è un trombettista jazz americano, e l’incontro con l’arcivescovo Trevor Huddleston, cappellano presso la scuola secondaria St Peters, fervente figura anti-apartheid (per questo poi costretto a rifugiarsi negli Stati Uniti), gli hanno fornito importanti input sociali e culturali, tanto a livello artistico, quanto sul piano delle idee politiche.
Fu Huddleston a fargli conoscere Uncle Sauda, leader dell’allora Brass Band di Johannesburg, composta dai cosiddetti nativi, ovvero africani, nell’assurdo linguaggio razziale del periodo di apartheid.

Linguaggi creativi sudafricani
Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, Bessie Smith, Ma Rainey, Chick Webb, Ella Fitzgerald, Sy Oliver, Duke Ellington, Count Basie, Coleman Hawkins e Cab Calloway sono stati solo alcuni dei musicisti che l’hanno maggiormente influenzato. Negli anni Cinquanta, il suo nome iniziò a imporsi negli ambienti jazzistici, grazie alle performance live e alle collaborazioni con grandi nomi della scena jazz sudafricana, quali Zakes Nkosi, Kippie Moeketsi, Alfred Herbert e i Manhattan Brothers.
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Partecipò poi al celebre musical King Kong di Todd Matshikiza e pubblicò Jazz in Africa, con John Mehegan. Alla fine del 1959, insieme ad altri musicisti, tra cui il grande pianista Dollar Brand (poi Abdullah Ibrahim dopo la sua conversion all’Islam), formò i Jazz Epistles, il primo gruppo jazz africano a registrare un album, Jazz Epistle: Verse 1, seguito da Live at Selbourne Hall, registrato il 13 ottobre 1959 a Johannesburg, in cui appaiono straordinarie versioni di “A Night In Tunisia” di Dizzy Gillespie e “I Got It Bad (And That Ain’t Good” di Paul Webster e Duke Ellington.

A spezzare questo fermento culturale in Sudafrica e a provocare un’ondata di esuli fu il massacro di Sharpeville, avvenuto il 21 marzo 1960. L’evento, nato sottoforma di protesta pacifica contro le leggi sui lasciapassare e i pass-book, sfociò in un eccidio: la polizia aprì il fuoco contro i manifestanti, uccidendone 69 e ferendone molti altri.

New York e l’età d’oro del jazz

Il tragico episodio ebbe profonde ripercussioni politico-sociali e influenzò gli sviluppi della storia sudafricana. Il governo di Pretoria accrebbe la repressione nei confronti delle voci di dissenso e per molti artisti esprimersi liberamente in un Paese razzista e oppressivo divenne quasi impossibile. Hugh Masekela decise di partire per gli Stati Uniti, raggiungendo il suo vecchio mentore Huddleston e altri connazionali, tra cui Miriam Makeba.

Giunse a New York nel 1960, all’epoca del grande movimento per i diritti civili di Martin Luther King. «Arrivai nel bel mezzo dell’età d’oro del jazz – ricorda Masekela – quando si poteva entrare nello storico Birdland e sentire Duke Ellington o Ella Fitzgerald, e poi andare al Basin St. West per ascoltare Sarah Vaughn e Count Basie e poi ancora all’Half Note per incontrare Coltrane e Miles Davis. Andai a New York dove potevo ritrovare padre Huddleston, costretto a lasciare il Sudafrica perché divenne l’incubo dell’allora presidente Verwoerd».

Negli States, il trombettista registra storici album, tra cui Promise of a future e Masekela, lavori attraverso cui diffonde i ritmi, le tradizioni sudafricane e le difficoltà dei connazionali rimasti in patria. Nei suoi dischi riecheggia l’estrema sofferenza della condizione di esiliato.

Back to Africa
La nostalgia delle proprie radici, il processo di decolonizzazione e il recupero di certe idee “afrocentriche”, tra cui quelle propugnate dal poeta, predicatore e intellettuale nazionalista Marcus Garvey con il suo progetto di un “ritorno all’Africa”, lo spingono ad abbandonare gli Stati Uniti, per raggiungere prima la Guinea, poi la Liberia e il Ghana.

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È negli anni Settanta che recupera ed esplora con maggiore slancio le sonorità propriamente africane, come dimostrano Home is where the music is registrato con il grande Dudu Pukwana, e i progetti afro-beat, sulla scia dell’incontro con Fela Kuti.

Nel 1981, Masekela decise di trasferirsi nel Botswana, dove fondò una scuola di musica, ma dopo soli quattro anni dovette abbandonare il Paese per raggiungere Londra, dopo che le forze di difesa sudafricane massacrarono la moglie Lindi Phahle e altre persone, con il pretesto di eliminare “campi di terroristi” coordinati dagli attivisti anti-apartheid.

Dopo la produzione del musical Sarafina con il cantautore e commediografo Mbongeni Ngema, e la partecipazione al progetto di Paul Simon, Graceland, nel 1990 Masekela riuscì a tornare nel suo Paese d’origine e a camminare nuovamente da uomo libero in terra sudafricana. L’anno successivo, per recuperare gli anni di distanza, organizzò lo storico tour Sekunjalo. This Is It!, poi immortalato nel dvd Homecoming Concert.

«Fino a qualche anno fa, noi neri eravamo considerati solo forza-lavoro a basso costo, una riserva abbandonante di manodopera da sfruttare», raccontò Masekela poco tempo il suo ritorno in Sudafrica. «Ora è importante piantare il seme del cambiamento e modificare il modo di pensare non solo della nostra gente, ma anche dell’establishment, cioè di coloro che hanno le risorse per trasformare il Sudafrica in un simbolo di speranza per l’intero continente africano».

La delusione nel presente
Dopo l’entusiasmo dei primi anni di libertà e della fine del lungo periodo di razzismo, il trombettista sudafricano iniziò a essere critico nei confronti della nuova classe politica sudafricana. Un atteggiamento polemico che ha confermato recentemente dichiarando, nel 2007:

«I rappresentanti amministrativi dell’attuale Sudafrica sono spaventati dalla musica, considerata un pericoloso mezzo di cambiamento. Con la fine dell’apartheid e lo smantellamento delle strutture nel 1994, ho provato un momentaneo senso di euforia, ma dopo si è verificato un grande compromesso politico. Un processo di amnesia si verifica sempre dopo aver raggiunto la libertà. Le persone combattono per la libertà, poi dimenticano e opprimono il loro stesso popolo».

Un commento amaro di un grande jazzista, che guarda con profondo disincanto la politica dell’ANC, da oltre 10 anni al potere in Sudafrica.

Articolo di Silvia C. Turrin© originariamente pubblicato sul sito SMA Africa

Per approfondire:

Biografia e link legati alla musica sudafricana (solo in inglese)

Dischi (recenti) consigliati:

  • Phola, Times Square Record, 2008
  • Live At The Market Theatre, Chisa, 2007
  • Time, Sony, 2002

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