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Suoni per non dimenticare ingiustizie e amori perduti

John “Rabbit” Bundrick

È fra i tastieristi più importanti a livello internazionale, tanto che le sue collaborazioni spaziano dalla band cult degli Who al compianto padre del reggae, Bob Marley. Ma tra un album rock e l’altro, il musicista texano ama creare intensi progetti new age, dedicati non solo ai Nativi d’America. Ce ne parla in questa intervista.

Nonostante la notorietà e le numerose collaborazioni con storiche icone del rock, tra cui Mick Jagger e Roger Waters, John Bundrick non rientra nel novero di quei musicisti immersi solo nelle registrazioni in studio, nelle interviste e nei più disparati progetti discografici, estraniandosi totalmente da ciò che accade in questo “crudele, pazzo, bellissimo mondo” (come cantava qualche anno fa Johnny Clegg). Tutt’altro. Rispondendo alle nostre domande, si è rivelato un artista attento alle problematiche internazionali e, soprattutto, particolarmente sensibile verso quei popoli sfruttati e soggiogati dalla “cultura” del più forte. La sua carriera è un affascinante, policromatico viaggio che lo ha portato a peregrinare in quei luoghi definibili tappe importanti nella storia della musica.

Grazie a una madre pianista, un padre bassista e un fratello polistrumentista, Bundrick, cresciuto in quel di Houston, è stato catapultato sin da piccolo nei suoni e nell’intreccio di note prima country, poi reggae e pop. La svolta è avvenuta incontrando Johnny Nash, per il quale ha composto, oltre che suonato, una serie di brani divenuti cult, tra cui “I Can See Clearly Now”. Da qui in avanti è stata una continua ascesa, che lo ha visto protagonista a fianco di Bob Marley nell’indimenticabile album Catch a Fire, a cui sono seguite svariate collaborazioni con Jim Capaldi, Eric Burdon, Donovan e John Martyn, solo per citarne alcuni, per poi cimentarsi nella maestosa colonna sonora del film The Rocky Horror Picture Show. Tra un disco solista e l’altro (il primo, Broken Arrows, risale al 1973), John ha sviluppato un proficuo percorso professionale insieme all’amico Pete Townshend, mente e chitarristica della band che è stata uno dei capisaldi dello spirito ribelle dei Settanta e a cui si deve la monumentale opera rock Tommy. Bundrick, come tastierista, è stato ed è infatti parte integrante degli Who, contribuendo a creare quell’energia palpabile nel corso dei loro mitici live. Parallelamente a quest’anima da rocker, Rab, come preferisce essere chiamato, ha portato avanti una serie di progetti sorprendentemente legati al filone new age, molti dei quali s’ispirano alla cultura dei Nativi d’America. Tra i lavori più suggestivi figurano Moccasin Warrior e Dreamcatcher (firmato con lo pseudonimo di Nana Raven), album dai quali abbiamo estrapolato i nostri sampler. Attraverso l’intenso dialogo tra la melodia del flauto e il potente ritmo delle percussioni, viene ripercorsa la storia dolorosa delle antiche tribù dell’America del Nord, sterminate a milioni dopo lo sbarco della Mayflower lungo la East Coast degli Stati Uniti. Se Dreamcatcher esprime la dimensione sciamanica di quei popoli inscindibilmente connessi alla Madre Terra, al Grande Spirito e agli antenati, Moccasin Warrior racchiude la rabbia e lo sdegno per il bagno di sangue perpetrato dai coloni bianchi e culminato con la strage di Wounded Knee (1890). Comporre brani quali “Indian Ten Commandments”, “Pioneers theme”, “Afterlife” e poi ancora “Water Spirit” è stato per Bundrick quasi una sorta di dovere artistico-morale, come lui stesso lascia trasparire in questa intervista, concessaci gentilmente malgrado il periodo impegnativo, non facile anche a livello emotivo-sentimentale.

Lei ha realizzato diversi progetti musicali dedicati ai Nativi del Nord America. Quando e come è nato l’intenso legame per questi popoli?

“Sono sempre stato interessato alla loro cultura. Gli indicibili drammi vissuti e subiti dai Nativi americani li ho in qualche modo interiorizzati, come se riuscissi a capire le sofferenze e i soprusi che hanno patito a causa degli atteggiamenti di dominio da parte dei bianchi. In fondo, assistiamo anche oggi a sopraffazioni simili in altre parti del globo. Basta guardare ciò il governo americano sta facendo al resto del mondo, dal saccheggio di risorse naturali alla spartizione di intere nazioni… Il legame con gli Indiani, antichi abitanti del mio Paese d’origine, credo sia nato sui banchi di scuola. Ero sempre circondato da bulli, da gente che voleva imporre la propria volontà su di me, che cercava in tutti i modi di indirizzarmi verso una determinata direzione che, ovviamente, non era quella che io desideravo. È così che si è sviluppato il mio atteggiamento contrario a ogni forma di supremazia”.

Gli arrangiamenti di brani quali “Sacred Dream”, “Afterlife” e “Dimensions” le sono stati ispirati da eventi o suggestioni particolari?

“Queste e altre tracce sono nate in modo del tutto spontaneo nella mia mente. Stavo cercando suoni e melodie che fossero curative, ma che allo stesso tempo mettessero in evidenza le situazioni drammatiche vissute in passato dai Nativi americani e nel presente da tutti i diseredati del mondo”.

Nel corso della sua carriera, ha lavorato a fianco di vere e proprie icone della musica, come Roger Waters e Bob Marley. È stato ed è poi uno dei più importanti tastieristi rock degli ultimi tre decenni. Cos’è cambiato secondo lei in questi anni nella scena rock?

“Quando ho iniziato, la gente ingaggiava i musicisti in base al talento e all’unicità dello stile, almeno questo è stato ciò che ho vissuto. In ogni caso, ieri e in modo più accentuato ai nostri giorni, la vera creatività artistica la si può esprimere solo scrivendo e producendo la propria musica”.

E la sua esperienza con gli Who, come la considera?

“Diciamo che le redini venivano mosse da Pete Townshend. Io mi divertivo soprattutto a suonare nei live”.

Dal rock alla new age. O meglio, un’alternanza… La musica non ha proprio frontiere?

“Mi piace accostare queste due realtà così diverse. Per esempio, in Moccasin Warrior ho voluto comunque inserire chitarre ed evidenti atmosfere rockeggianti. Anni fa avevo assistito a un live dei Redbone, band formata da Nativi americani, e loro suonavano pezzi definibili sciamanici, legati alle loro tradizioni e ai loro ritmi, in cui vibravano chiari rimandi al rock. Conoscere e ascoltare quella formazione mi ha indubbiamente ispirato”.

Ha già in cantiere un nuovo album?

“Sì. Sto scrivendo un disco interamente basato sulle classiche melodie new age, dedicato a mia moglie, Sue. È morta lo scorso aprile per un cancro al fegato. Mi sento emotivamente inquieto e i miei stimoli creativi oscillano fra vari stati d’animo, ma vado avanti. La musica non si ferma…”.

Silvia C. Turrin©

 

 

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