Africa Articoli Storia e Archeologia

Migranti africani, in fuga da guerre, povertà e catastrofi ambientali

In Italia, e nel più vasto contesto europeo, è da anni che le migrazioni – soprattutto provenienti dal continente africano – vengono definite e gestite secondo una logica emergenziale. C’è chi addirittura parla di “invasione”: un termine che ricorda molto lo slogan del National Party sudafricano – ovvero oorstroming (inondazione) –  usato durante la campagna elettorale del 1948, che permise al partito nazionalista di vincere e di istituzionalizzare il regime di apartheid.

Qui non entreremo nel merito delle politiche legate all’immigrazione. Piuttosto desideriamo ricordare in modo sintetico e, speriamo, in maniera comunque esaustiva, i fattori che spingono tantissimi africani ad abbandonare la loro terra d’origine, per rischiare la vita nelle acque del Mediterraneo, giungendo poi in centri di “accoglienza”, spesso ghettizzati, isolati dal resto della società.

Perché e da cosa fuggono donne, bambini, uomini provenienti dall’Africa?

Per rispondere prendiamo in considerazione i conflitti e le attuali crisi interne in varie nazioni africane.

Incominciamo dal Sudan e dal Sud Sudan

Sud Sudan

Sino al 2011 formavano un’unica entità nazionale, poi divisa dalla secessione dell’area meridionale. Il vecchio Sudan, sin dalla sua indipendenza (avvenuta nel 1956) dal Regno Unito,  si presentava diviso tra nord e sud, tanto che scoppiò un conflitto interno durato ben 17 anni. Da quella prima destabilizzazione, la zona meridionale del Sudan ottenne lo status di regione autonoma, ma le controversie politico-territoriali erano talmente profonde che nel 1983, l’allora governo di Khartoum, revocò alla zona del Sud lo status di autonomia.

Le rivalità tra l’area settentrionale del Sudan e quella meridionale si acuirono, sia per motivazioni di natura etnico-religiosa, sia, soprattutto, per fattori collegati al controllo di specifiche terre e alla distribuzione dei proventi del petrolio. Le continue tensioni sfociarono in una seconda guerra civile, dal 1983 al 2005, cui seguirono ancora scontri sino a giungere, appunto, alla secessione del Sud Sudan nel 2011. Ma la storia di queste due nazioni rimane scandita da instabilità. Il Sudan è ripiombato in una serie di scontri nel corso del mese di aprile 2023, tra le forze capeggiate dal generale Mohamed Hamdane Daglo, detto “Hemedti”, e l’esercito, guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhane, che di fatto guida il paese dopo il colpo di stato del 25 ottobre 2021.

Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya e Uganda sono i principali Stati che accolgono i  rifugiati provenienti dal Sud Sudan. Nonostante l’instabilità, il Sudan da decenni ha accolto rifugiati provenienti dall’Eritrea, dal Ciad, dalla Siria, dallo Yemen e dal vicino Sud Sudan.

La lunga crisi della Repubblica Democratica del Congo

rdc migranti

Un’altra nazione da decenni tormentata è la Repubblica Democratica del Congo. La sua storia è scandita da un feroce colonialismo, da crisi, attentati, assassini (su tutti, ricordiamo quello di Patrice Lumumba) e da guerre interne che nascondevano e che nascondono ancora oggi gli enormi interessi di varie potenze straniere non africane.

Le aree della RDC più tormentate, confinanti con il Ruanda, il Burundi e l’Uganda, sono il Nord-Kivu e l’Ituri, dove agiscono gruppi armati che formano una vasta e talvolta nebulosa galassia di forze militari e paramilitari.

A seminare instabilità e terrore vi sono i ribelli (tutsi) del Movimento M23, accusati di essere manovrati e sostenuti dal vicino Ruanda. Un movimento che trae origine dagli scontri fra Hutu e Tutsi e che originò il sanguinoso genocidio ruandese. Vi sono poi le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR) accusate di aver diffuso un atteggiamento ostile verso i Tutsi. Altri gruppi sono: Codeco, acronimo di Cooperativa per lo sviluppo del Congo, ma in questo caso il concetto di sviluppo rimane solo di facciata, essendo formato da un insieme di gruppi armati legati alla comunità Lendu. Vi è poi l’ADF (sigla che sta per Forze democratiche alleate), altro gruppo violento di origine ugandese legato allo Stato Islamico, quindi in conflitto con l’esercito sia congolese, che ugandese. Tanti gruppi armati che si contendono il controllo delle enormi ricchezze del Nord-Kivu e dell’Ituri, come l’oro, il coltan e lo stagno.

I rifugiati e i richiedenti asilo congolesi presenti in Africa sono più di un milione; la maggioranza si trova in Uganda (479.400). Altri Stati di accoglienza sono Burundi, Tanzania, Ruanda, Zambia e Angola.

L’Etiopia, un’altra terra tormentata.

A essere maggiormente colpita in questi anni è la popolazione tigrina. Come ha messo in luce un rapporto di Amnesty International e di Human Rights Watch, le forze di sicurezza regionali dell’Amhara e le autorità civili della Zona occidentale del Tigray hanno commesso, a partire dal novembre 2020, violenze contro la popolazione tigrina definibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il conflitto in Tigrai durato due anni (2020-2022) lascia profonde, gravi conseguenze. Centinai le vittime e 2 milioni di sfollati interni (secondo fonti Reuters).

Speranze disattese per le rivoluzioni in Maghreb

La primavera araba è la denominazione data a quell’insieme di contestazioni popolari avvenute in varie nazioni del nord Africa e del Medio Oriente. Il periodo va dal dicembre 2010 alla metà del 2012 e ha coinvolto, tra gli altri paesi, l’Algeria, la Tunisia, la Libia, l’Egitto.

Queste rivoluzioni, in molti casi, non hanno portato a un miglioramento delle condizioni sociali della popolazione, bensì, a livello politico-istituzionale si sono sprigionate varie tendenze, forze, nonché fratture destabilizzanti.

Basti considerare la Libia sprofondata nelle guerre civili a seguito della caduta di Gheddafi. Nonostante si continui a parlare di tentativi di normalizzazione, il contesto libico rimane frammentato. Ancora nel 2022 si sono verificati combattimenti in pieno centro della capitale Tripoli. Gruppi armati di varia natura continuano a proliferare in varie zone del paese. La violazione dei diritti umani rimane ancora diffusa, in particolare nei famigerati centri di detenzione, dove donne, bambini e uomini sono detenuti in condizioni disumane.

libia migranti

 

In generale, la situazione in Libia è drammatica, come sottolinea Amnesty International.

“Le milizie, i gruppi armati e le forze di sicurezza hanno continuato a detenere arbitrariamente migliaia di persone. Decine di manifestanti, avvocati, giornalisti, voci critiche e attivisti sono stati rastrellati e sottoposti a tortura e altro maltrattamento, sparizione forzata e “confessioni” videoregistrate. Le milizie e i gruppi armati hanno fatto ricorso all’uso illegale della forza per reprimere proteste pacifiche in tutto il paese”.

Non va meglio in Algeria, dove “Le milizie, i gruppi armati e le forze di sicurezza hanno continuato a detenere arbitrariamente migliaia di persone. Decine di manifestanti, avvocati, giornalisti, voci critiche e attivisti sono stati rastrellati e sottoposti a tortura e altro maltrattamento, sparizione forzata e “confessioni” videoregistrate. Le milizie e i gruppi armati hanno fatto ricorso all’uso illegale della forza per reprimere proteste pacifiche in tutto il paese”, ha denunciato Amnesty.

Per non parlare dell’Egitto, considerato un paese autocratico governato dal militare Abdel Fattah al-Sisi, artefice del colpo di Stato nel 2013, contro l’ex presidente Morsi. Con al-Sisi le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Repressione degli oppositori al regime, detenzioni arbitrarie, persone decedute in carcere, numerosi i prigionieri d’opinione e prigionieri politici. Da ricordare, la brutale uccisione di Giulio Regeni e l’incarcerazione arbitraria di Patrick Zaki, poi per fortuna rilasciato ma non ancora prosciolto.

Peggiorati sono anche i contesti sociali e politici in Mali, Niger, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana.

La recrudescenza militare e politica in Mali, che ha portato nel marzo 2012 a un colpo di Stato, a cui hanno fatto seguito una guerra civile, e poi l’intervento francese con la cosiddetta operazione Serval, ha avuto un effetto domino sugli Stati vicini.  Il Niger è in balia di gruppi jihadisti, come testimoniano i numerosi sequestri di civili, stranieri e missionari. Ricordiamo su tutti il rapimento di padre Gigi Maccalli, durato venticinque mesi. Esperienza drammatica – raccontata nel suo libro “Catene di libertà” (EMI) – da lui affrontata con coraggio e fede.

padre Gigi Maccalli

Nel deserto della prigionia ho visto che l’essenziale nei conflitti è il dialogo e l’incontro, mai lo scontro. Le guerre non risolvono mai i conflitti e producono sempre tante vittime innocenti. Sono stato risucchiato dentro un conflitto armato come ostaggio e ho visto da vicino questo mondo oscuro. Oggi sono libero ed è per me una responsabilità gridare il desiderio di pace di tanti uomini, donne e bambini a cui è stata sequestrata la pace. Essere libero mi impegna ad offrire a tutti una parola che generi pace e vita.
Padre Gigi Maccalli


Le migrazioni nascono da queste involuzioni, dall’assenza di libertà e di un vera democrazia, a cui si aggiungono altri fattori, quali:

  • la mancanza di lavoro e di reali prospettive di crescita e di sviluppo;
  • le persecuzioni politiche o le discriminazioni di genere o etniche;
  • le catastrofi naturali (siccità, tifoni, cicloni) provocate sempre più dall’effetto serra e dai cambiamenti climatici;
  • la corruzione dei politici locali e l’accaparramento delle ingenti risorse minerarie (oro, coltan, diamanti, petrolio, gas, rame, cobalto, manganese, tungsteno, ecc.) da parte di potenze e multinazionali straniere, extra-africane.

 

Una politica europea di accoglienza dei migranti schizofrenica

I migranti provenienti dall’Africa (e non solo) erano e sono accolti in Europa prevalentemente in funzione delle necessità legate al mondo del lavoro (ad esclusione di quei migranti accettati in quanto rifugiati politici).

Si può dire che fino agli anni ´70, grazie al boom economico, molti Stati europei hanno accolto numerosa manodopera proveniente dall’Africa. Dopo la crisi del 1973 dovuta principalmente alla guerra del Kippur, con il conseguente shock petrolifero, il Vecchio Continente iniziò a porre un freno all’ingresso di stranieri extraeuropei. Durante gli anni ’80, alcune comunità africane, in particolare dall’Africa occidentale, potevano ancora  entrare legalmente in alcune nazioni europee.

Le limitazioni progressive si sono via via rafforzate in concomitanze con le crisi economiche avvenute nei mercati occidentali-capitalistici, con la decadenza di molti settori lavorativi,  con il processo di globalizzazione e con il risveglio di movimenti nazionalisti, che fanno “dell’identità etnica” la loro bandiera ideologica.

A tutto ciò si aggiunge la creazione dell’Unione Europea, che ha sì permesso ai suoi membri di circolare più o meno liberamente da un paese europeo all’altro, ma che ha rafforzato al contempo il concetto di frontiere. Una vera Unione Europea non c’è – visti i rapporti di forza tra i suoi Stati-membri e le differenti politiche in materia di sanità, accoglienza, lavoro, diritti sociali e civili. E in questo contesto di involuzione delle democrazie europee si assiste parallelamente alle sempre più numerose restrizioni all’immigrazione extra-europea.  

Il controllo delle frontiere esterne alla “fortezza Europa” è diventato più stringente, sia per motivi economici, sia ideologici, sia propagandistici, anche a causa dello “spazio di Schengen”.

Parallelismi con l’apartheid sudafricano?

In Sudafrica, prima della legalizzazione ufficiale del regime di apartheid, venne istituita, nel 1921, la Transvaal Local Government Commission, presieduta dal colonnello Stallard. Il lavoro di questa Commissione si basò su un’idea centrale, ovvero che la popolazione nera sudafricana dovesse essere trattata principalmente come “riserva di lavoro” a disposizione dei bianchi. Nei termini della Commissione, ai nativi doveva essere accordato il permesso di entrare nelle aree urbane solo se la loro presenza fosse stata richiesta dal settore economico dei bianchi e, di contro, dovevano allontanarsi dalle stesse aree quando tale richiesta fosse cessata.

Proprio in seguito alle raccomandazioni della Commissione Stallard venne promulgato, nel 1923, il Natives Urban Areas Act, attraverso il quale i sudafricani neri furono considerati residenti urbani temporanei e, in quanto tali, dovevano essere rimpatriati verso le riserve: se non economicamente attivi; se non avevano diritti di proprietà; se non occupati.

Guardando specificatamente al caso italiano e ai recenti sviluppi, o meglio regressioni, in materia, sembra si vogliano applicare regole simili a quelle applicate all’epoca dell’apartheid sudafricano.

Una persona extraeuropea può entrare in Italia a seconda delle esigenze e delle richieste del mercato del lavoro.

A tutto ciò, si aggiunge il risveglio/rafforzamento di atteggiamenti nazionalisti, populisti e razzisti che utilizzano la questione dei migranti come tema di propaganda.

I migranti vengono quindi dipinti come “minacce” alla sicurezza e addirittura all’identità italiana…

Un approccio, questo, molto simile a quella visione ideologica tipica del National Party sudafricano artefice dell’apartheid. Non a caso, come già in precedenza accennato, durante la campagna elettorale che vide la vittoria del partito nazionalista i temi dominanti erano: l’oorstroming (inondazione) delle città di un proletariato africano incontrollato e lo swaart gevaar (pericolo nero).

Come concludere questo articolo?

Con una poesia, perché solo un testo poetico può dare un senso alla follia umana e può risvegliare nelle nostre coscienze addomesticate dal benessere quel sentimento di Umanità di cui il mondo ha bisogno.

Silvia C. Turrin

Poesia Home di Warsan Shire, poetessa britannica di origine somala

Warsan Shire Home

nessuno lascia la propria casa a meno che

casa sua non siano le mandibole di uno squalo

verso il confine ci corri solo

quando vedi tutta la città correre

i tuoi vicini che corrono più veloci di te

il fiato insanguinato nelle loro gole

il tuo ex-compagno di classe

che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine

ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo

lasci casa tua

quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo

fuoco sotto ai piedi

sangue che ti bolle nella pancia

non avresti mai pensato di farlo

fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti

il collo

e  nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale

sotto il respiro

soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto

singhiozzando ad ogni boccone di carta

ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

dovete capire

che nessuno mette i suoi figli su una barca

a meno che l’acqua non sia più sicura della terra

nessuno va a bruciarsi i palmi

sotto ai treni

sotto i vagoni

nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion

nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse

non significhino più di un qualsiasi viaggio.

nessuno striscia sotto ai recinti

nessuno vuole essere picchiato

commiserato

nessuno se li sceglie i campi profughi

o le perquisizioni a nudo che ti lasciano

il corpo pieno di dolori

o il carcere,

perché il carcere è più sicuro

di una città che arde

e un secondino

nella notte

è meglio di un carico

di uomini che assomigliano a tuo padre

nessuno ce la può fare

nessuno lo può sopportare

nessuna pelle può resistere a tanto

Andatevene a casa neri

rifugiati

sporchi immigrati

richiedenti asilo

che prosciugano il nostro paese

negri con le mani aperte

hanno un odore strano

selvaggio

hanno distrutto il loro paese e ora vogliono

distruggere il nostro

le parole

gli sguardi storti

come fai a scrollarteli di dosso?

forse perché il colpo è meno duro

che  un arto divelto

o le parole sono più tenere

che quattordici uomini tra

le cosce

o gli insulti sono più facili

da mandare giù

che le macerie

che le ossa

che il corpo di tuo figlio

fatto a pezzi.

a casa ci voglio tornare,

ma casa mia sono le mandibole di uno squalo

casa mia è la canna di un fucile

e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa

a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda

a meno che casa tua non ti abbia detto

affretta il passo

lasciati i panni dietro

striscia nel deserto

sguazza negli oceani

annega

salvati

fatti fame

chiedi l’elemosina

dimentica la tua dignità

la tua sopravvivenza è più importante

Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia

Che ti mormora nell’orecchio

Vattene,

scappatene da me adesso

non so cosa io sia diventata

ma so che qualsiasi altro posto

è  più sicuro che qui.

 

 

foto: unhcr.org; ourworld.unu.edu; MSF

Potrebbe piacerti...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *