Africa

12 settembre 1977: la morte in detenzione di Stephen Bantu Biko

 

Il testo seguente è tratto dal mio libro Il movimento della Consapevolezza Nera in Sudafrica. Dalle origini al lascito di Stephen Biko.

 

ingresso del museo dell’apartheid – a Johannesburg – Foto di Silvia C. Turrin – Da questa mia foto è stata concepita la cover del mio libro

In seguito alla rivolta di Soweto, il governo di Pretoria intensificò gli strumenti repressivi a disposizione sia del sistema giudiziario che delle forze dell’ordine. Utilizzando leggi specifiche legate alla sicurezza dello stato, gli oppositori al regime venivano detenuti, a tempo indeterminato, senza deferimento ai tribunali, subendo gravi violazioni dei diritti umani nel corso del periodo carcerario.

 Furono in particolare due i provvedimenti legislativi ai quali le autorità si appellarono per indebolire le forze anti-apartheid. Si trattava dell’Internal Security Act, introdotto proprio nel 1976, e del Terrorism Act, risalente al 1967, ampiamente utilizzato negli anni 1976-1977.[1]

Con il primo, venne estesa la portata del Suppression of Communism Act (1950), ridefinendo illegale qualsiasi organizzazione che, effettivamente o potenzilamente, minacciasse la sicurezza dello stato e il mantenimento della legge e dell’ordine; inoltre, prevedeva la possibilità di bandire ogni pubblicazione che promuoveva il comunismo o che diffondeva i principi dei movimenti ritenuti pericolosi.[2]

Il Ministro della Giustizia, sempre tramite l’Internal Security Act, aveva il potere di ordinare la detenzione preventiva, per un periodo non precisato e in assenza di processo, di chiunque rappresentasse una minaccia per lo stato. L’altro provvedimento legislativo utilizzato in concomitanza con i fatti di Soweto fu il Terrorism Act, nella parte relativa alla Sezione 6. Quest’ultima prevedeva la detenzione, senza imputazione e a tempo indeterminato, di chiunque fosse indiziato di terrorismo: reato definito come qualsiasi attività intesa a mettere in pericolo il mantenimento della legge e dell’ordine in Sudafrica. Dal rapporto del 1977 di Amnesty International si evince che le persone soggette alla Sezione 6 venivano trattenute per l’interrogatorio in zone scelte dalle forze di sicurezza: generalmente si trattava di luoghi non ubicati nelle prigioni ordinarie. Inoltre i parenti, il più delle volte, non venivano informati della detenzione, rendendo così difficile, anche per le organizzazioni umanitarie, accertare il numero effettivo delle persone in stato d’arresto in un determinato momento.[3] Secondo Christopher Merrett, il Terrorism Act divenne una licenza per la tortura e l’uccisione dei detenuti, spesso in una condizione di impunità e di assenza di informazioni in merito.[4] Infatti, in Sudafrica, a partire dagli anni ‘60 sino al decennio degli ‘80, si  verificò una sequela di decessi in detenzione di natura sospetta. A livello ufficiale, i motivi andavano dal suicidio per impiccagione a cause naturali, ma le sempre più numerose denunce di atti di tortura perpetrati dagli agenti di polizia verso i prigionieri lasciavano intravvedere molti dubbi circa le reali dinamiche dei decessi.[5] A prova di tali perplessità – poi ampiamente dimostrate da vari rapporti di organizzazioni umanitarie e, più recentemente, dai documenti finali redatti dalla Truth and Reconciliation Commission of South Africa – è doveroso prendere in considerazione il caso della morte in detenzione di Stephen Bantu Biko. Egli venne arrestato il 18 agosto del 1977 sulla base della già menzionata Sezione 6, del Terrorism Act.

Solo dopo poche settimane, il 12 settembre dello stesso anno, venne annunciato il suo decesso. Secondo la versione ufficiale fornita dalle autorità governative, ribadita dall’allora Ministro della Giustizia e della Polizia James Kruger, Steve Biko sarebbe morto in prigione a causa di uno sciopero della fame iniziato il 5 settembre. Esprimendo l’indignazione e l’incredulità di molti a tale spiegazione, un editoriale  – apparso sul quotidiano sudafricano Rand Daily Mail – sottolineò come le persone non morissero per inedia nell’arco di soli sette giorni. I dubbi sulla reale causa del decesso aumentarono in seguito alla dichiarazione di Donald Woods, secondo la quale, poco prima dell’arresto, Biko gli promise che non avrebbe attuato lo sciopero della fame durante il suo periodo di detenzione.[6] Agli interrogativi che circondarono la scomparsa dell’esponente più popolare del BCM si diede risposta, seppur parziale, attraverso il rapporto post-mortem. Compilato durante la metà di settembre, venne consegnato a James Kruger il 24 ottobre 1977, ma non fu immediatamente pubblicato. Da esso risultò chiaro come l’inedia non fosse l’effettiva causa della morte di Biko, bensì fu un danno cerebrale – risalente a circa otto giorni prima del 12 settembre – a provocarne il decesso. In seguito alla lesione, si verificò una riduzione della circolazione sanguigna, resa difficile anche dalla coagulazione intravascolare; inoltre, erano evidenti segni di insufficienza renale ed uremia.[7] Il rapporto evidenziò almeno una dozzina di altre escoriazioni e contusioni, incluse ferite costali. L’indagine post-mortem, condotta dal Dott. Johan Loubser e dal Dott. Jonathan Gluckman, entrambi patologi, corroborò le notizie e le ipotesi formulate da alcuni quotidiani sudafricani, in primis il Rand Daily Mail e il Sunday Times di Johannesburg.[8] Alla fine del 1977, si aprì la prima inchiesta formale sulla morte di Stephen Biko: dopo una breve udienza avvenuta il 27 ottobre, i dibattimenti veri e propri vennero aggiornati al 14 novembre dello stesso anno.[9]

continua nelle pagine del mio libro…

[1]Inizialmente, l’Internal Security Act fu denominato Protection of State Security Bill, la cui forma abbreviata era “S.S. Bill”. Proprio questa espressione venne utilizzata dagli oppositori al regime di apartheid per il chiaro riferimento alla dittatura nazista. Il governo di Pretoria optò quindi per una modifica semantica: il contenuto e la natura repressiva di tale provvedimento rimasero comunque inviariti.

[2]Cfr. C. Merrett, A culture of censorship, cit., p.93. Per maggiori dettagli relativi al Suppression Communism Act, si rimanda all’introduzione di questo lavoro.

[3]Cfr. Amnesty International, Rapporto 1977, p.62.

[4]Cfr. C. Merrett, A culture of censorship, cit., p.49.

[5]L’uso della tortura da parte delle forze di polizia aumentò in modo impressionante con l’introduzione, nel 1963, della clausola detta dei 90 giorni: in quest’arco di tempo, qualunque persona sospettata di attività politiche sovversive poteva essere detenuta senza mandato e trattenuta in isolamento, senza poter appellarsi alla difesa. In seguito, tale clausola venne perfezionata consentendo la detenzione preventiva, senza imputazione nè processo, per un periodo di 180 giorni. Dal rapporto della TRC si stima che le forze di sicurezza sudafricane praticavano diversi tipi di tortura nei confronti dei prigionieri: pestaggi, maltrattamenti fisici tramite l’uso di strumenti elettrici, violenza psicologica, soffocamento e deprivazioni. Cfr. Truth and Reconciliation Commission, Truth and Reconciliation Commission of South Africa Report, Vol.2, Cape Town, 1998, pp.190 e 197; Jean Guiloineau, Nelson Mandela. Biografia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1990, p.236.

[6]Cfr. Africa Research Bullettin. Political, Social and Cultural Series, Vol.14, January 1 – December 31, 1977, pp. 4567 e 4568. Biko confidò a Donald Woods, durante un loro colloquio, che non sarebbe mai stato vittima, per sua volontà, di una delle seguenti quattro cause di morte: impiccagione, soffocamento, dissanguamento (per essersi reciso le vene), digiuno.  Nel caso si fosse verificata una delle ipotesi menzionate, Woods doveva ritenerla una falsità. In merito, si veda D. Woods, Biko, cit., pp.225 e 226.

[7]Il fenomeno dell’uremia, ovvero l’accumulo nel sangue di scorie azotate, è generalmente una diretta conseguenza dell’insufficienza renale.

[8]Cfr. Africa Research Bullettin, Vol.14, cit., pp.4610 e 4611. Entrambi i quotidiani pubblicarono rapporti che confutavano lo sciopero della fame come causa del decesso di Biko, dimostrando come egli, quando morì, fosse in sovrappeso. Bisogna inoltre notare che Donald Woods, con Ntsiki, vedova del leader del BCM, riuscirono a vedere la salma di Biko ed entrambi constatarono come non presentasse alcun segno di malnutrizione. In proposito, si veda D. Woods, Biko, cit., p.227.

[9]L’eccidio di Soweto e la morte in detenzione di Stephen Biko, spinsero il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a decretare, in modo unanime, l’embargo delle armi contro il Sudafrica. Nella risoluzione S/RES/392, datata 19 giugno 1976, il Consiglio di Sicurezza riaffermava che la politica di apartheid non solo era un crimine contro la coscienza e la dignità del genere umano, ma comprometteva seriamente la pace e la sicurezza internazionale. In realtà, il primo embargo delle armi fu adottato nel 1963, ma non conteneva un mandato e non venne appoggiato da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza. Dopo il massacro di Soweto, anche il Comitato speciale contro l’apartheid appoggiò tale embargo e chiese il totale isolamento del regime razzista sudafricano. Già nel 1973, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dichiarò l’apartheid un “crimine contro l’umanità”. In merito, si veda United Nations Organization, U.N.O., The United Nations and Apartheid, 1948-1994, New York, United Nations Department of Public Information, 1994, pp.33, 37, 38, 48, 326, 339, 342.

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