Africa Musica Storia e Archeologia

Amiri Baraka e la diaspora africana negli States

«I canti d’Africa
non mi riguardano. I passi nella sabbia
del loro
paese. Terra
in bianco e nero, fogli
di giornale
a lastricare il mondo. Non
sento
d’essere come sono. […]
Il mio colore non è il loro. Più chiaro, parlo
bianco. Loro mi schivano. Le mie
anime morte, “la mia gente”. L’Africa è un posto
straniero. Come ogni uomo triste qui
sei americano».

Così declamava il poeta nero Amiri Baraka, deceduto lo scorso 9 gennaio all’età di 79 anni (ne avrebbe compiuti 80 il 7 ottobre 2014) nella stessa cittadina statunitense che gli diede i natali, ovvero Newark (New Jersey). Tra i più rispettati, criticati e amati scrittori afro-americani, Baraka ha saputo lanciare messaggi e interrogativi fondati su questioni ancora oggi drammaticamente attuali, quali: razzismo e liberazione dei neri.

La figura di Amiri Baraka è avvolta da luci e da ombre, da prese di posizione condivisibili e altre opinabili, ma il suo lascito rimane un contributo importante per comprendere sia i drammi vissuti dagli afroamerican, sia le dinamiche, i pregiudizi, i problemi legati alla diaspora africana.

Come suggeriscono i versi citati nell’incipit, Baraka ha affrontato la questione delle radici africane dei milioni di neri nati e cresciuti negli States. Schiavitù, sradicamento dalla Madre Terra, perdita e ricerca della propria identità sono solo alcuni dei tanti temi sviscerati e analizzati dal poeta nero un tempo chiamato LeRoi Jones. Questo nome lo portò dalla nascita sino alla sua conversione all’Islam, avvenuta negli anni ’60 dello scorso secolo, a seguito dell’assassinio di Malcolm X (anch’egli convertitosi all’Islam).

Ma come avvenne per Malcolm X, che nell’ultimo periodo prima del suo brutale assassinio stava ridimensionando le sue idee più radicali e si stava avvicinando al movimento non-violento di Martin Luther King, anche Amiri Baraka col tempo smussò i suoi estremismi legati all’Islam, tanto da eliminare nel suo nome l’appellativo “Imamu”, che significa leader spirituale.

Baraka, come migliaia e migliaia di afroamericani, o meglio di “neri americani” – espressione privilegiata da LeRoi Jones e da lui utilizzata nel suo famoso libro Il popolo del blues – ha vissuto le contraddizioni di un’identità sospesa tra Africa e Nuovo Mondo.

Nei versi di Baraka, qui trascritti all’inizio, si percepisce quella lontananza dell’autore rispetto alla terra originaria dei suoi avi. Lui si sente paradossalmente “più bianco” dei suoi fratelli neri africani, ma altrettanto paradossalmente Baraka si definisce “nero americano” lontano dai bianchi. Emblematico è infatti Blues People: Negro Music in White America, titolo originale del suo scritto più famoso pubblicato negli Stati Uniti nel 1963, e uscito in Italia come Il popolo del blues, un’intestazione decisamente più morbida e moderata…

Amiri Baraka, tuttavia, ha trovato un ponte comunicativo tra i neri africani e i neri americani, tra l’Africa e la comunità della diaspora africana: «La musica – scrisse – è stato l’unico vettore originato dalla cultura africana che non poteva essere sradicato, era la dimostrazione dell’esistenza dell’uomo afro-americano e della cultura afro-americana».

La musica è quindi quel punto d’unione tra due comunità che hanno le stesse radici originarie, destrutturate dal razzismo e dalla schiavitù. Nella musica si trova il punto di contatto, come sottolinea Baraka ne Il popolo del blues, quando parla per esempio del canto creolo raccolto da Lafcadio Hearn a New Orleans: un canto in cui vi sono parole francesi (patois) e africane. E, fa notare ancora Baraka, «i versi che invitano all’intemperanza sono in africano».

Le parole africane esprimono dunque ribellione, e sono proprio quelle che i bianchi non potranno mai comprendere…

Amiri Baraka musicalmente si ispira ad altri nero-americani, jazzisti anch’essi influenzati dal retaggio sonoro e culturale dell’Africa, quali John Coltrane, Ornette Coleman e Thelonius Monk.

Baraka è, in cuor suo, legato alla Madre Africa, come testimonia la sua importante collaborazione con la band Dinamitri Jazz Folklore con cui realizza l’interessante disco jazz Akedengue Suite: in esso si ritrovano numerosi riferimenti sonori e storico-culturali all’Africa. Basta ascoltare brani come “Kongo Bells” o “The slaves singing”, o ancora “There really was an Africa”.

Attraverso la scrittura e la musica, Amiri Baraka ha fatto riavvicinare il nero americano alla sua terra natia. Nelle parole di LeRoi Jones, alias Amiri Baraka: «[…] il nero come schiavo è una cosa, il nero come americano un’altra. Ed è il cammino del nero da schiavo a cittadino americano che intendo esaminare, e lo farò attraverso la musica di questo “cittadino schiavo”, quella a lui più strettamente legata […]».

Blues e jazz parlano anche di Africa, perché è da questo continente che ritmi, memorie, luoghi dell’anima e della mente hanno origine…

Silvia C. Turrin

Articolo pubblicato anche sul sito SMA Afriche

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