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A Parigi, fra ritratti maliani e “dadaismo” africano

Chi ama l’Arte a 360 gradi e al contempo ama l’Africa sempre a 360 gradi sa che a Parigi può approfondire e soddisfare entrambe le passioni. Vuoi per il retaggio coloniale, vuoi per il melting pot culturale, vuoi per la presenza di tante comunità provenienti dai vari angoli del “continente nero”, sta di fatto che la Ville Lumière si conferma una delle capitali europee più aperte ad accogliere eventi, esposizioni, meeting incentrati sui vari volti dell’Africa.

Basta dare un’occhiata all’Agenda culturale degli ultimi mesi per avere ancora una volta la conferma di quanto Parigi rimanga, nonostante le numerose ferite subite di recente, una città attenta alle culture “altre”.

Al Musée du quai Branly, nel VII arrondissement, sino al 21 gennaio 2018 è aperta la mostra Les forêts natales, Arts d’Afrique équatoriale atlantique. Un’esposizione di opere di alto spessore provenienti da collezioni pubbliche e private tramite le quali ci si immerge in una vasta area culturale del continente africano che va dal Gabon alla Guinea Equatoriale, dal sud del Camerun alla zona occidentale della Repubblica del Congo. Ciò permette al visitatore di entrare a fondo nei diversi linguaggi artistici di diversi popoli – Fang, Kota, Tsogo, Punu – che hanno saputo plasmare magnificamente diversi materiali (in particolare il legno) per dare forma allo spirito degli antenati. Nelle teche si scoprono magnifiche maschere colorate con pigmenti naturali e abbellite con fibre vegetali, e poi statue e figure-reliquiario di varie dimensioni. Vere opere d’arte che rivelano l’incredibile abilità e creatività dei popoli della foresta equatoriale atlantica.

 

La Fondazione Henri Cartier-Bresson, nel XIV arrondissement ospita fino al 25 febbraio 2018 un omaggio a Malick Sidibé. Scomparso il 14 aprile 2016, il grande fotografo Malick Sidibé nacque nel 1935 à Soloba (Mali) e studiò a Bamako, presso l’Ecole des Artisans Soudanais. Nel 1962 aprì nel quartiere di Bagadadji, nel cuore della capitale, il suo atelier di fotografia chiamato “Studio Malick”. Da allora, in un Mali culturalmente effervescente, Malick Sidibé coi suoi scatti immortala donne e uomini, soprattutto giovani, che nelle serate di Bamako scoprono le danze provenienti dal Vecchio Continente e da Cuba. Sono ritratte le nuove generazioni, piene di sogni e di speranze, che vogliono lasciarsi alle spalle il periodo coloniale attraverso la musica e il ballo. La retrospettiva denominata Mali Twist – un titolo che si rifà in parte alla canzone eponima del chitarrista maliano Boubacar Traoré e in parte alla fotografia di Malick Sidibé “Dansez le Twist” del 1965 – è un’occasione per ritornare indietro nel passato di Bamako, quando la gioventù maliana nutriva sogni di riscatto e di autorealizzazione. Quei sogni e quella vitalità li ritroviamo ancora nei quartieri della capitale, nonostante la recente guerra e lo spettro dei fondamentalismi.

 

Interessante è poi l’Expo Dada Africa, presso il Musée de l’Orangerie, I° arrondissement, organizzata grazie alla collaborazione del museo Rietberg di Zurigo, della Berlinische Galerie Berlin, e del museo d’Orsay.

Qui il continente africano è protagonista in maniera indiretta, ovvero per il tramite dell’influsso culturale che ha avuto sul movimento anticonformista Dada.

Nato e sviluppatosi a Zurigo durante la Prima guerra Mondiale, il Dadaismo ha cercato nuove forme espressive in opposizione a quei valori dominanti all’inizio del ´900 e si è poi diffuso a Berlino, New York e ovviamente a Parigi. Gli artisti Dada attinsero ampiamente all’arte africana, e anche a quella dei popoli amerindi e orientali. Questi influssi diedero vita per esempio alle “soirées nègres” al Cabaret Voltaire, e allo scritto di Tristan Tzara “Nota sull’arte nera”. Poesie sonore, collages, balli, performance arricchiscono questa esposizione che mette a confronto l’arte tout court africana con quella del periodo dadaista che ha visto tra i suoi esponenti maggiori Hanna Höch, Sophie Taeuber-Arp, Marcel Janco, il già citato Tristan Tzara, Man Ray, e Picabia.

 

Silvia C. Turrin

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