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Addio al grande sassofonista Manu Dibango

Alcuni di noi vogliono uscire dall’Africa […] Certo, bisogna amare anche le proprie radici, ma ogni paese ha la sua musica tradizionale, non solo l’Africa. Per il fatto che l’Africa è nel terzo mondo forse la gente pensa che i musicisti africani non siano capaci di suonare il pianoforte, il sintetizzatore o il sax. Vogliono vedere gli africani battere sui tam-tam e sui talking drums… Ma le cose stanno cambiando!”.

Così dichiarò Manu Dibango nel lontano 1984, in occasione dell’uscita del suo album Abele Dance. Un disco che fuoriesce davvero dai soliti steccati prevedibili della musica africana; infatti in Abele Dance troviamo una fusione tra diversi ritmi e stili. Una fusione sonora che ha scandito i progetti musicali del nostro sin dagli anni ’70 del XX secolo. Anche grazie a Dibango la musica africana è riuscita a oltrepassare le frontiere del continente africano e a imporsi con successo in tutto il mondo.

Douala, le radici

Manu Dibango è un artista che rientra a pieno titolo nella grande Storia (con la S maiuscola!) della musica. Lui, insieme a tanti altri colleghi africani (tra cui Alpha Blondy, Miriam Makeba, Hugh Masekela e Fela Anikulapo-Kuti, solo per citarne alcuni), pur mantenendo le proprie radici africane, è riuscito a rendere internazionale una musica che va oltre l’Africa, divenendo un po’ funk, un po’ jazz, un po’ electro-dance. Dibango nacque in Camerun, a Douala, il 12 dicembre 1933. Sin da giovanissimo si divise tra Africa ed Europa, studiando filosofia in Francia. Grazie all’incontro con un altro grande musicista, nonché etnomusicologo, Francis Bebey, si avvicinò al jazz.

Nel 1956, quando già Dibango era diventato un abile sassofonista e pianista, si trasferì in Belgio, a Bruxelles, dove suonò in un club di jazz e musica africana. Negli anni successivi, si divise ancora tra Europa e Africa collaborando fra gli altri con Joseph Kabasele, padre della musica moderna congolese, e con Nino Ferrer. Fu però a Douala, là dove si trovavano le sue radici, che registrò un brano che lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo.

Soul Makossa

Secondo la versione ufficiale, l’allora Presidente del Camerun, Ahidjo, chiamò Manu Dibango nel 1971 per commissionargli una canzone che divenne poi l’inno dell’VIII edizione della Coppa d’Africa (che si è disputata tra il 23 febbraio e il 5 marzo 1972 tra Douala e Yaoundé). In realtà, a Dibango fu commissionato un 45 giri: il brano del lato A era pronto, ma non quello per il lato B. Il sassofonista compose quindi un pezzo strumentale, di getto e senza troppe aspettative, ispirandosi ai ritmi makossa, ma aggiungendo arrangiamenti soul. Quel brano è noto col titolo “Soul Makossa”. Purtroppo, a causa della sconfitta della squadra nazionale di calcio del Camerun, tanti suoi connazionali per protesta distrussero svariate copie di quel piccolo (ma che divenne poi prezioso) 45 giri.

Nonostante questo inizio tormentato, “Soul Makossa” ben presto divenne una canzone di successo planetario. Il merito va, prima, a un certo David Mancuso, che si appassionò a questo brano tanto da diffonderlo nella discoteca di Brooklyn in cui lavorava; poi fu la volta di un altro dj di New York, tale Frankie Crocker, che passò “Soul Makossa” alla radio WLIB. Da lì il successo internazionale per Dibango prese il volo. Gli anni ’70 e ’80 furono per il sassofonista camerunense due decenni d’oro, pieni di creatività, collaborazioni, riconoscimenti prestigiosi. Per l’Occidente l’Africa non era più solo “tam-tam”…

Non solo musica

“Papa Manu”, come Dibango veniva ed è familiarmente chiamato dai suoi estimatori, nel corso della sua vita ha utilizzato la popolarità per diffondere messaggi importanti, per esempio contro il razzismo. Ricordiamo il suo sostegno a favore della liberazione di Nelson Mandela e il suo appoggio alle campagne anti-apartheid. Negli ultimi anni, ha messo in guardia più volte dai pericoli dei cambiamenti climatici in atto sulla Terra. Dibango, insieme ad altre personalità di spicco, nel 2018 ha firmato un appello per “salvare il pianeta” dal riscaldamento globale, definito “la più grande sfida della storia dell’umanità”.

Manu Dibango, a 86 anni, è stato portato via da un virus – COVID-19 – la cui diffusione avrebbe potuto essere prevista e stroncata prima che si diffondesse in tutto il mondo. Ricoverato all’ospedale di Melun, “Papa Manu” si è spento il 24 marzo scorso. Le sue spoglie adesso riposano al cimitero di Père-Lachaise a Parigi.

Silvia C. Turrin

Foto: matookerepublic.com; griot.de; genius.com

L’articolo è on line anche sul sito SMA Africa e in Africa, tra popoli e culture

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